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«La testa era collegata a fili che pendevano dall’alto»

Katia Grancara by Katia Grancara
30 Luglio 2012
in CITAZIONI, LIBRI
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Realtà e finzione nel “fact-finding writing”
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Ecco i primi tre capitoletti del nuovo, avvincente, sorprendente romanzo di Giovanni Nebuloni (“Il Signore della pioggia”, I libri di Emil, pp. 336, € 16,00), del quale abbiamo già riportato, in un precedente numero di “LucidaMente”, l’“Introduzione” di Margherita Ganeri (Realtà e finzione nel “fact-finding writing”)

Vita e morte saldano in te, signora della notte, torre di luce, regina dell’alba, vergine luna, madre d’acqua madre, corpo di mondo (Octavio Paz, Pietra di sole)

Mercoledì 4 maggio
1 – ore 04.22
Il fulmine schiarì il giardino della Target Informatics Srl e il tuono forte e secco fece tremare i vetri del locale di vigilanza, dove uno dei guardiani trasalì. Esclamò che da secoli non infuriava a Milano un nubifragio simile e domandò se fosse possibile definirlo un uragano.
«Potrebbe esserlo per la velocità del vento» valutò il collega e, senza alzare lo sguardo dal monitor, avvertì che avevano un’emergenza. «È saltata l’alimenta-zione elettrica» precisò. «Non sono subentrati generatori di riserva, ma per qualche frazione di secondo c’è stata un’interruzione di corrente».
«Avrà pregiudicato dispositivi?».
«No, sensori e rivelatori sono a posto».
«E le cavie?».
«Chiami cavie quelle cose? Per quanto si può capire dalle telecamere, potrebbero essere larve, automi, zombie, morti viventi o replicanti. Non è accaduto niente di grave, te lo ripeto. Ne sono certo come della pioggia che imperversa».
«La pioggia che cade sul giusto e sull’ingiusto. Non guarda in faccia a nessuno. Non è come la morte?».
«L’anemometro indica che il vento soffia a centosette chilometri orari».
«E continua a piovere».

«Piove come Dio la manda».

2 – ore 04.23
“Come Dio la manda”, cinque piani sotto sentì una delle persone segregate.
Si chiese chi avesse pronunciato la frase e per quale motivo la superficie che aveva davanti non rifletteva i suoi movimenti. Eppure, aveva spezzato istintivamente la morsa che l’aveva trattenuto a un polso e, sollevato un braccio, stava seguendo con lo sguardo una sua mano e le dita muoversi.
Ciò che la ritraeva interamente non era dunque uno specchio.
Era il lucido schermo, comprese, d’un impianto televisivo. Forse in avaria per infiltrazioni d’acqua che avevano causato il cortocircuito il quale, a sua volta, aveva bloccato uno o più sistemi. La sua figura di donna s’era così congelata lì sopra e, sdraiata nel nulla, sospesa a un metro da terra, la sensazione che aveva del fluire d’un fiume dentro di sé le centuplicò le forze.
Non le costò molto strappare anche le cinghie di cuoio all’altro polso. Quelle ai fianchi e alle caviglie e si sarebbe levata da dove si trovava se, con ulteriore raccapriccio, non avesse realizzato d’avere tubi di gomma nel proprio corpo.
Trasparenti e flessibili, calavano da una selva di meccanismi installati a soffitto ed erano visibili anche sullo schermo, dov’erano fissi come lo era ancora la sua immagine. Senza precludere la respirazione, uno scendeva nella faringe e un altro entrava nel retto per qualche centimetro. Questi non le davano pensieri. In altra apertura il terzo, invece, l’angustiava. Avrebbe potuto intralciare la nascita della scalpitante creatura che sentiva in grembo e, che fosse incinta, lo ribadiva la sua immagine come in fotografia.
Vi s’evidenziava il ventre rotondo. Era grande come una palla da basket e l’avevano trasferita in questo luogo affinché partorisse meglio, oppure per far sì che suo figlio non vedesse la luce?
Maschio o femmina, sarebbe comunque nato ed estraendo il sondino fra le natiche, la donna provò la non sgradevole impressione che le acque si stessero rompendo. Sfilò quello in gola e temette di soffocare per il rigurgito amaro e vischioso che colò dalle labbra. Osservò poi cadere con esasperante lentezza e senza rumore anche il terzo tubo e dovette accettare di non essere ancora libera.
La testa era collegata a fili che pendevano dall’alto e non aveva nemmeno il bulbo d’un capello. Alla sommità postero-inferiore, era stata asportata una calotta di teca cranica. Era l’equivalente d’una papalina e, dalla membrana che avvolgeva la materia cerebrale e dalla dura madre, entravano e uscivano cavi di colori e forme diversi.
Uno, piatto e verde, raggiungeva le due donne a sinistra e le due altre a destra. Erano nelle sue stesse condizioni di poco fa, immobili nell’aria, serrate da cinghie e di fronte a uno schermo. Tenevano le palpebre abbassate e i cavi delle loro teste terminavano con connettori provvisti di dadi ad alette, su una piastra quadrata di alcuni centimetri.
La donna tastò la sua testa o ciò che ne rimaneva. Constatò che anche qui c’era una clip. Un gancio fissava la piastra a un margine dello scempio che le era stato ricavato nel cranio. Farlo scattare risultò sorprendentemente facile e sollevò con delicatezza dalla pelata la piastra con i cavi applicati.
La lasciò pencolare.
Il cuore martellò e, improvvisamente, si trovò in posizione eretta.
Era stato come se l’avessero sollevata, sostenendola per le ascelle.
Barcollava, tuttavia. Non riusciva a mantenere tesi i grandi glutei e i muscoli delle gambe e s’accasciò sul parquet come un foulard. Nell’avvolgente silenzio, notò che non era freddo e ricordò esercizi di riabilitazione di muscoli deltoidi, dorsali e tensori, adduttori, bicipiti, plantari ed estensori.
Doveva averne appreso i movimenti appropriati da un’amica fisioterapista e, nonostante il pancione, iniziò a compierli diligentemente, senza fretta, allungando e ritraendo gli arti.
In un estremo impeto di volontà, dopo un’ora di fatica e afflizione infine si rialzò e un sorriso le sfiorava il volto. Era sicura di poter correre a perdifiato e valutò che la sala, illuminata da una tremula e fioca luce bianca e azzurra, doveva essere alta sei o sette metri. In pianta, era un quadrato d’una ventina di metri di lato e dal soffitto, d’acciaio come le pareti, scendevano numerose apparecchiature e display di vari colori e dimensioni.
Osservò che la sua posizione sull’invisibile lettino era stata al centro di cinque posti e che, alla distanza di qualche metro, si stendeva un’altra fila parallela. Era formata da cinque uomini, completamente nudi come lei e le donne. Avevano schermi contrapposti e anche la scatola cranica di quelli era stata in parte rimossa.

Distolse lo sguardo e lo posò s’una porta che le parve aperta. L’avvicinò in punta di piedi come un topo in chiesa e, varcandola, rischiò d’inciampare, sui gradini d’una stretta scala in salita.

3 – ore 05.57
La donna spiò dall’anta socchiusa. Si ritrasse e si sentì sciogliere.
Stava avendo la certezza d’aver udito le parole che dicevano di Dio e della pioggia e che l’avevano risvegliata come il bacio Biancaneve. La voce arrochita che le aveva pronunciate era la stessa del guardiano anziano che stava facendo notare al giovane con i baffi come non gli importasse ciò che facevano qui, ma soltanto il denaro. «Gli sporchi soldi» aggiunse. «Ma pagano bene e i soldi non bastano mai».
Come aveva potuto udire quelle parole, si domandò la donna, lontana cinque piani e sottoterra. Le sembrò di rivedersi insegnare in una palestra e un brivido di freddo le frustò la schiena. Trattenne un lamento e continuò a origliare:
«Dobbiamo resistere ancora per poche ore».
«Sono le sei spaccate».
«Alle otto ci daranno il cambio e in mezzora arriveranno gli impiegati».
«Lo sapevi che hanno tutti almeno una laurea, centralinista compresa?».
«Mi sarei iscritto anch’io a qualche corso. Però ho lasciato perdere. Sarei finito come tanti altri sulla strada con una scopa e una patente d’operatore ecologico».
«Alla tua età, non sai che la lotta è l’arte della vita?».
«Una volta si diceva che la lotta fosse il sale, non l’arte, della vita».
«Lo è anche per me!» esclamò la donna e, dimentica del peso in grembo, spinse e aprì la porta. Scattò al centro della stanza. Fece perno sulle ginocchia e ruotò su se stessa. S’elevò, fece scattare una gamba e, col tallone, provocò lo scricchiolio della mascella d’uno dei guardiani che, rovinando a terra, picchiò la fronte sullo spigolo di un mobile.
Si volse per affrontare il collega e scorse una pistola. Vi si scagliò contro. Sentì uno sparo. Temette che, dalla bocca di metallo sempre più vicina, la prossima pallottola non l’avrebbe mancata.
L’espansione dell’aria provocata da un tuono premette però sull’unica anta d’una finestra che si spalancò e sbatté contro la nuca dell’uomo.
Il violento urto l’aveva tramortito. Nello slancio, la donna gli era finita sopra e, poggiando s’una mano, s’impossessò del revolver. L’impugnò per la canna e calò colpi su colpi.
Si sollevò non prima d’aver visto una tintura rossa allargarsi fra i capelli.
Alla domanda se dovesse tirare il grilletto, non ebbe una risposta. Nel suo cervello c’erano stridii d’uccelli o un vuoto che cercò di riempire, con quanto aveva sotto agli occhi. Riguardò l’uomo baffuto. Stimò fosse della sua taglia. Lo spogliò di scarpe, pantaloni, giacca e camicia.
Indossò gli indumenti e lasciò allentata ai fianchi la cintura con la pistola.
Si mise anche il berretto. Strinse la cravatta al collo. Si rammaricò che non vi fosse uno specchio e non avesse rossetto, mascara e fondo tinta e udì diverse segnalazioni d’allarme.
Decise di fuggire per sottrarsi al frastuono e raggiunse l’altra porta che doveva essere l’accesso principale. Agì sulla maniglia. Constatò ch’era sbarrata. Non si vedevano chiavi. Non ce n’erano nelle sue tasche e in quelle del vecchio che frugò. Ma il provvidenziale serramento che le era stato d’aiuto era sempre aperto e, alle prime luci dell’alba, osservò che c’era un parco “immenso come la luna”.
Arretrò di qualche passo. Si tenne la pancia con entrambe le mani. Saltò scavalcando il davanzale e si ritrovò come una stupida sull’erba bagnata.

Le parve di stare in una piscina. Realizzò che pioveva a catinelle e rifletté che la pioggia era il seme, lo sperma fecondatore del suolo che ne riceveva la fertilità. Rammentò d’essere una ginnasta e, sebbene sopra vi corresse del filo spinato, l’alta cinta in muratura per lei non sarebbe stato un ostacolo insormontabile.

La nostra rivista si è spesso occupata della produzione narrativa di Giovanni Nebuloni. Ecco un elenco degli articoli, a opera di vari redattori:
Realtà e finzione nel “fact-finding writing”
Una tela di mistero tessuta da religioni, servizi segreti e amore
Nel ventre profondo della divinità
Dalla metropolitana alla steppa mongola
Un oscuro enigma di 3500 anni fa
Un rapido succedersi di abili e sorprendenti colpi di scena
«Il “doppio” può essere la morte»
La polvere eterna di Giovanni Nebuloni

«È una ”kippot”, non devi toccarla!»

(k.g.)

(LucidaMente, anno VII, n. 80, agosto 2012)

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Tags: Emilfact-finding writingfocusganeriNebulonipioggiasignore
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