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I vincitori, i secondi… e gli ultimissimi

Dalla redazione by Dalla redazione
19 Gennaio 2010
in ATTACCO FRONTALE
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Colui che si ritiene migliore ha il dovere di prendersi cura di chi ritiene peggiore, se non per bontà d’animo, almeno per la propria salvaguardia. Egli, infatti, nemmeno avrebbe la possibilità di ritenersi il migliore senza la presenza di colui che considera peggiore. È tanto più utile il peggiore al migliore che il migliore al peggiore, in quanto l’inesistenza di quest’ultimo negherebbe l’esistenza del primo.
Il primo implica sempre il secondo – Migliore e peggiore sono facilmente traducibili rispettivamente con i termini primo e secondo. Lo vediamo tutti i giorni, non lo si può negare. Verdura di prima scelta: è migliore di quella di seconda scelta. Il corridore che è arrivato primo: ha avuto un tempo migliore del secondo. E vale la regola del viceversa. Come detto, quindi, primo e secondo sono bilateralmente uniti in un rapporto consequenziale: il primo non è primo senza la presenza di un secondo e, quindi, il secondo non sarebbe tale se non vi fosse un primo davanti a lui. Logicamente la posizione di sfavore è ricoperta dal secondo e questo tenderà più facilmente a sviluppare un sentimento negativo verso il primo, specialmente quando quel primo assume atteggiamenti di manifesta superiorità nei suoi confronti. È responsabilità del ruolo del primo, pertanto, mantenere rapporti di equità verso il suo secondo che, implicitamente, permette il suo stato di favorito. Risulta difficilmente concepibile che il secondo assuma a priori e perseveri nella sua condizione di sfavorito, particolarmente nel momento in cui percepisce e realizza che il suo ruolo è subordinato, in regime d’asservimento, all’esistenza di un primo che si accaparra tutto, non gira a lui altro che le briciole e detta i ritmi della sua esistenza.

È possibile una società più equa? – Il mondo di oggi ruota attorno a un’accentuata relazione di primi e secondi (terzi, quarti e perfino ultimi). I primi rischiano grosso nel loro tentativo a circuito chiuso di perpetuare l’esistenza della propria casta. È il gioco del serpente che si morde la coda, ma anche del tirare troppo la corda. Il rischio è connesso al fatto che non sono loro, i primi, ad aumentare in numero, ma sono i secondi a moltiplicarsi in un moltiplicarsi causato proprio dall’élite dei primi che evolvono in primissimi. Il più semplice e rozzo istinto di sopravvivenza dovrebbe indurre il primo, se vuole mantenere il suo status (e la sua salvaguardia fisica) a una equa ridistribuzione dei suoi privilegi. L’ideale sarebbe lo spogliarsi di tutti questi vantaggi, arrivando a fondersi ai secondi e miscelando una società senza classi fatta, a questo punto, di soli primi. O di soli secondi. Oppure di soli ultimi. Certamente di tutti uguali. Comunque, a questo stadio non ci si può arrivare da un giorno all’altro, occorre scendere i livelli uno per volta. Occorre invertire la tendenza dilagante del primo che si allontana dal secondo e si arrocca nelle sue enclavi fisiche e mentali. Il primo dovrebbe iniziare a rendere meno manifesto il suo primato, a smettere di nascondersi dietro appelli umanitari, dichiarazioni moralistiche che non hanno riscontro nel mondo reale. Il secondo deve rimanere vigile e non coccolarsi d’illusioni.

Riavvicinare i primi ai secondi – Forse, facendo leva sul sentimento egoistico proprio del primo, e non sull’altruismo che ha sepolto per arrivare al suo podio, si può sperare in un miglior futuro per il secondo, in relazione al discorso del mantenimento del suo status di privilegiato. Servirebbe riavvicinare i primi agli ultimi, perché oggi sono davvero troppo lontani gli uni dagli altri. Non facendo sì che gli ultimi li raggiungono nei loro tenori di vita, che sono insostenibili in primo luogo per la sopravvivenza del pianeta, bensì degradando i primi verso il basso fino a trovare il punto d’equilibrio nel mezzo della distanza che ora separa i due gruppi. L’unica alternativa a questo, oggi, è l’unione di tutti i secondi in una sola massa in modo che la determinazione unita faccia vacillare le posizioni occupate dai pochi. Però questa eventualità è poco fattibile per due motivi. In primo luogo, la potenza racchiusa nelle mani dei pochi primi a loro protezione è ben maggiore di quella tenuta dalle mani deboli dei molti secondi che si battono per il loro riscatto. Inoltre, storicamente, il potere dei primi si è sempre consolidato dopo ogni battaglia “fisica” con i secondi. Addirittura anche quando il secondo è riuscito a mettere al tappeto il primo. Per esempio, anche se gli Usa sono usciti sconfitti dal conflitto in Vietnam, l’aspetto del mondo negli ultimi quarant’anni è stato tracciato ben più da loro, e a propria immagine e somiglianza, che dai vietnamiti. Il secondo non è mai riuscito, purtroppo, a mettere KO il primo, ha tirato anche dei buoni colpi, ma quello è sempre tornato in piedi. Se così non fosse, del resto, non vivremmo oggi la globalizzazione capitalista.

Divisi per essere comandati – Un altro motivo, ben più importante e decisivo, è il fatto che, come accennato prima, in questo nostro mondo i secondi di alcune società sono primi addirittura rispetto ai primi di altre società. Insomma, a livello globale non esiste il secondo: non c’è unità nemmeno tra i secondi. Ci sono appunto i terzi, i quarti e via a scalare fino a raggiungere gli ultimi. Del resto come può un operaio occidentale, “un secondo” nella società in cui vive, non considerarsi “un primo” rispetto a un suo corrispettivo che sta in Afghanistan? E l’operaio afghano non è forse un primo rispetto a un profugo del Darfur? Ed ecco creato un terzo. Inoltre, l’afghano e il sudanese come potranno considerare quell’operaio occidentale un loro pari e come potranno considerarsi pari tra loro? Sono proprio stati divisi per essere comandati. O si fa lo sforzo comune di eliminare i pregiudizi e vedersi davvero tutti secondi uniti, perché i primi, ad ogni latitudine, sono sempre caratterizzati dagli stessi atteggiamenti, oppure non c’è speranza in questa direzione.

L’ambizione ci sovrasta – Dovremmo tutti essere consapevoli d’esser primi o secondi. Primi nei confronti di taluni secondi e secondi nei confronti di altri primi, e in base a questo comportarci di conseguenza. Non potrebbe essere altrimenti o dovremmo considerarci gli unici (non unici, bensì proprio gli unici); tuttavia, in un mondo sovrappopolato come il nostro, non è un’ipotesi reale. Questa consapevolezza, che dovrebbe responsabilizzare chiunque al mondo chiamandolo ad agire di conseguenza, è forse l’unico atteggiamento in grado di spezzare la catena alla quale tutti siamo legati in regime di subordinazione al nostro relativo primo e di sfruttamento al nostro relativo secondo. In ultima analisi, dopo aver scoperto che ognuno di noi è un primo e un secondo relativamente al prossimo, ricordiamo che comunque il ruolo di primi non lo ricopriamo mai in assoluto. Il primo in assoluto è un sentimento: l’ambizione, che ci sovrasta e che ci obbliga a inserirci, secondi, peggiori e perdenti, nell’odiosa classifica.

L’immagine: San Michele Arcangelo (1635, olio su tela, Roma, chiesa di Santa Maria della Concezione) di Guido Reni (Bologna, 4 novembre 1575 – Bologna, 18 agosto 1642).

Niccolò Bulanti

(Lucidamente, anno V, n. 51, marzo 2010)

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