Il 14 luglio 1970, nella Città dello Stretto, esplodeva una collera popolare che si sarebbe protratta a lungo, con morti e devastazioni irreparabili
In occasione del quarantacinquesimo anniversario dei “moti di Reggio”, riproponiamo la recensione del nostro direttore Rino Tripodi, non a caso reggino di nascita, del fondamentale libro di Luigi Ambrosi La rivolta di Reggio. Storia di territori, violenza e populismo nel 1970 (Prefazione di Salvatore Lupo, Rubbettino, pp. 320, € 19,00). Una pubblicazione che sgombra il campo da tante falsità sull’evento storico. Per amor di precisione, l’articolo è uscito per la prima volta sul n. 46 (ottobre 2009) di LucidaMente. Il titolo originario era: Un “altro” 14 luglio: il potere e i moti reggini del 1970-71.
Non è certo facile studiare, approfondire, analizzare e tentare di interpretare un evento così “lungo” (luglio 1970-febbraio 1971, con i rigurgiti dei tumulti che si protrassero fino a novembre del 1971) e complesso (per i suoi riflessi e al contempo per i suoi collegamenti storici, politici, economici, sociali, antropologici, culturali, ecc.) quale i moti di Reggio Calabria del 1970-71. Per i meno avvertiti, ricordiamo sinteticamente cosa accadde in Calabria in quegli anni. La rivolta di Reggio si innesta nel contesto dell’attuazione dell’ordinamento regionale, previsto dalla Costituzione e fino al 1970 mai applicato. Così in Calabria (e anche in Abruzzo) tornò a galla il problema del capoluogo regionale, questione non peregrina non solo per motivi di orgoglio municipale, in quanto collegata – specie in realtà come quella calabrese – alla distribuzione di posti di lavoro relativi agli uffici degli organismi politici regionali.
Reggio e le altre città calabresi
Reggio Calabria risultava (e risulta) la città più popolosa e ricca di storia, cultura e bellezze paesaggistiche dell’intera regione. Tuttavia, accordi occulti tra alcuni notabili catanzaresi e cosentini di livello nazionale e appartenenti ai due partiti politici (Democrazia cristiana e Partito socialista italiano) allora più importanti nel contesto della formula governativa del centro-sinistra, avevano designato Catanzaro come capoluogo regionale, Cosenza come sede della Università degli studi della Calabria, mentre nella provincia di Reggio (Piana di Gioia Tauro) si sarebbe dovuto realizzare il V Centro siderurgico.
Dopo varie assemblee e riunioni, la rivolta di Reggio per ottenere l’assegnazione del capoluogo si può datare a partire dal 14 luglio 1970. Già il 15 luglio si ha la prima vittima, il ferroviere Bruno Labate. Su questa morte, come su quasi tutte le altre (una decina, per non parlare delle centinaia di feriti gravi) verificatesi (per cause dirette o indirette) nel corso degli eventi del 1970-71 (e si devono aggiungere le sei vittime del probabile attentato al treno “Freccia del Sud” a Gioia Tauro del 22 luglio 1970), non si è mai fatta piena luce.
I tumulti continueranno a fasi alterne per circa un altro anno e mezzo, fino all’autunno 1971, caratterizzati prevalentemente dalla tattica delle barricate urbane, ma intanto, nel febbraio 1971, nonostante vari progetti alternativi, il Consiglio regionale aveva sancito la “soluzione” verticistica ipotizzata, con l’assegnazione del capoluogo a Catanzaro (e il contentino della sede del Consiglio stesso localizzata a Reggio). Mentre l’Università della Calabria fu effettivamente realizzata nei pressi di Cosenza, il centro siderurgico non sorse mai…
I moti reggini, inizialmente spontanei e anche pervasi da senso civile e civico, furono trascurati, oltre che dal governo, da stampa e tv, per cui ebbero facile gioco le forze politiche di estrema destra (Movimento sociale italiano, “Boia chi molla” e altre) ad assumerne in breve tempo la guida. Incerto il ruolo della ’ndrangheta.
Su tali fatti non vale più il luogo comune della mancanza di studi, visto che ormai la bibliografia su di essi, se non altro per la presenza di ricerche di studiosi locali e di tesi di laurea, ha assunto una mole tutt’altro che esigua. Resta tuttavia la frammentazione e la mancanza di un esauriente studio di sintesi sui moti reggini.
Un saggio molto valido
Non si può pertanto che leggere con interesse e tessere le lodi del recentissimo saggio di Luigi Ambrosi La rivolta di Reggio. Storia di territori, violenza e populismo nel 1970 (Prefazione di Salvatore Lupo, Rubbettino, pp. 320, € 19,00).
La validità dell’opera, infatti, intanto consiste appunto nell’essere riuscita ad affrontare le innumerevoli sfaccettature del moto reggino e a trarre delle interessanti e, per molti versi, esaustive conclusioni. Inoltre Ambrosi ha effettuato un encomiabile, certosino, titanico lavoro di screening durato molti anni, con un esame di ogni fonte, materiale, interpretazione raggiungibile. Ad esempio, il ricercatore ha usato con intelligenza documenti in genere trascurati quali le carte dell’epoca elaborate dalle autorità dello Stato (Ministero dell’Interno, Carabinieri, Prefettura, Questura) e dei partiti (fino alle sezioni periferiche).
Ed è andato alle rivelazioni da parte delle “voci” di chi la rivolta l’ha vissuta, sia marginalmente, sia da anonimo, sia da protagonista, ricevendo da tali testimonianze ulteriori stimoli e luci interpretative.
L’autore punta su nuove chiavi esegetiche quali populismo, latitanza dello Stato, gestione dell’ordine pubblico, pervenendo ad analisi e sintesi che riguardano non solo l’evento specifico, ma le dinamiche centrali della storia italiana tutta, agenti non solo per il passato, ma – con aspetti inquietanti – caratterizzanti il presente e probabilmente il futuro.
Le città calabresi tra il 1945 e il 1970
Visto che ormai i fatti sono stati abbondantemente narrati in altri saggi, il libro di Ambrosi si sofferma giustamente solo per poche decine di pagine (Parte prima. Sequenze e scenari) sulla cronaca dei moti reggini.
Egli parte dall’immediato Secondo dopoguerra (anche se sarebbe potuto andare ancora più all’indietro) per cogliere le origini della disputa per il capoluogo calabrese e la sua lunga incubazione (Preistoria). Delinea la situazione delle tre principali città calabre (Reggio, Catanzaro e Cosenza) negli anni precedenti la rivolta, quadro caratterizzato da un modello di crescita “artificiale” basato su sovraurbanizzazione e terziarizzazione precoce. E descrive gli squilibri (quantitativi e qualitativi) delle loro rappresentanze politiche, tutti pendenti dalla parte di Catanzaro e Cosenza, ai danni di Reggio.
Quindi passa a una rapida rievocazione dei fatti, cui abbiamo fatto cenno nel primo paragrafo di questo nostro scritto.
Cosa non fu la rivolta di Reggio
Nella mole enorme di fatti e definizioni, può essere utile chiarire, in modo molto sintetico, dapprima cosa la sommossa di Reggio non fu e poi ciò che effettivamente fu, secondo le lucide conclusioni di Ambrosi.
La rivolta:
• non fu fascista (i reggini non aderirono ideologicamente al fascismo, ma vennero a trovarsi al loro fianco il Msi e Ciccio Franco: «la “fascistizzazione” di gran parte dei reggini avvenne solo a rivolta conclusa, come conseguenza del risentimento per la sconfitta nella disputa del capoluogo»);
• non fu campanilistica (per le dimensioni e gli obiettivi dei moti), semmai localistica;
• non fu antipolitica («i reggini chiesero costantemente che sulla scelta del capoluogo si pronunciasse il supremo organo rappresentativo della democrazia italiana: il parlamento»);
• non fu antistatalista («i reggini si rivolsero ai supremi organi dello Stato – parlamento, governo, presidente della Repubblica – per chiedere, rispettivamente, garanzie di obiettività nella scelta del capoluogo, investimenti pubblici e tutela delle libertà civili»);
• non fu morale (piuttosto «la rivolta di Reggio fu un momento di disvelamento e di messa all’indice di metodi decisionali spartitori e poco trasparenti, clientelari e corrotti, ma ciò avvenne soltanto di fronte alla constatazione di un evidente sbilanciamento nei rapporti di forza. In altri termini, i reggini avrebbero voluto che gli interessi della propria città contassero di più, che i loro rappresentanti fossero più capaci di ottenere erogazioni di risorse dagli organi centrali, proprio con le stesse logiche e gli stessi metodi che denigravano»);
• non fu notabilare e delle forze clientelari («in primo luogo poiché non potevano essere definite tali le destre escluse dalla gestione del potere che egemonizzarono la protesta. Inoltre, notabilato e clientelismo non erano accuse riferibili solo alle forze pro capoluogo ma più ampiamente diffuse»);
• non fu corale dall’inizio alla fine («fino all’inizio di settembre 1970 non vi fu una prevalenza schiacciante del fronte pro capoluogo rispetto a quello contrario alla protesta. Il silenzio e i rinvii delle autorità centrali, nonché gli incoerenti e discrezionali divieti di manifestare posti da quelle locali, specie poliziesche, fecero raddoppiare l’adesione alla protesta»);
• non fu particolarmente violenta («il numero limitato di feriti tra le forze dell’ordine – dal 14 luglio al 13 ottobre se ne contarono 251 – e le cronache suggeriscono un impiego delle forze notevolissimo ma sempre misurato da parte dei dimostranti»);
• non fu riconducibile a uno scenario meridionale arretrato («la “fame di uffici” e la vocazione al terziario erano il frutto della modernizzazione avvenuta nel ventennio 1951-71, dei mutamenti attesi ma anche realizzati, pur in modo frammentato e squilibrato. […] In effetti, era stata la scolarizzazione di massa, aspetto non certo riferibile ad una società arretrata, ad alimentare molte aspettative espresse durante la rivolta. […] In questa prospettiva, emerge tra l’altro uno dei legami tra la protesta reggina e il movimento studentesco del 1968, entrambi “figli” del boom economico»).
Cosa fu la rivolta di Reggio
Invece essa, sempre secondo Ambrosi, fu una rivolta
• per il capoluogo regionale (anche se furono presenti altre motivazioni quali la disoccupazione, i bassi redditi, la ambizioni personali, l’esasperazione, i progetti eversivi, ecc.);
• delle élites locali (protagonisti furono amministratori, politici, imprenditori e professionisti);
• interclassista e popolare (si aggregarono tutte le classi sociali e persino militanti socialisti e comunisti);
• urbana (gli interessi della provincia erano talora contrastanti con quelli di Reggio: «il rapporto della provincia con la rivendicazione del capoluogo fu dunque oscillante e dialettico, condizionato da vari fattori, tra cui la distanza dei singoli comuni e aree da Reggio e i loro differenti orientamenti politici e composizioni socio-economiche»);
• localistica (legata a interessi locali);
• territoriale (predominante fu il senso di appartenenza, la “regginità”, anche attraverso «un patrimonio folkloristico-tradizionale di valori e di simboli proprio delle “classi subalterne”»);
• rivelatrice dei fallimenti del riformismo italiano e della crisi di mediazione (metodi politici che in quel caso mostrarono fatalmente le corde);
• populista (basata sul generico concetto di “popolo”).
Le interpretazioni salienti del libro
L’originalità e l’intelligenza del lavoro storiografico di Ambrosi si palesano in alcune cifre interpretative, in grado di fornire risposte esaustive sulla rivolta, ma anche spunti per un’analisi attuale e indagini future.
Una prima originale interpretazione dello storico riguarda il rapporto tra rivolta di Reggio e Sessantotto. Una seconda la latitanza dello Stato e la cattiva gestione dell’ordine pubblico nel caso della protesta per il capoluogo… Approfondiremo entrambe nel numero 48 (dicembre 2009) di Lucidamente, che sarà dedicato ad alcuni degli avvenimenti degli “Anni di piombo”.
Il punto forse più interessante del saggio di Ambrosi, tuttavia, riguarda la Retorica populista (III capitolo della Parte seconda) e le sue conseguenze sulle dinamiche politiche attuali.
Lo storico, assumendo anche le vesti del sociologo, esamina i topoi dell’immaginario populista, che si possono riassumere così:
• il tradimento (ai danni del popolo, buono, puro, ingenuo);
• l’intrigo e l’accordo sottobanco (l’arcadia populista vive sotto l’incubo di oscure, perenni, congiure);
• la spartizione e il baratto (sono i risultati delle manovre precedenti ai danni del popolo);
• il personalismo in politica (sono gli uomini col loro potere politico ad agire, a essere determinanti, a contare, non le ideologie).
«Con “populismo” non si indica mai né un movimento né un regime politico, ma un atteggiamento, uno stile retorico, una tecnica propagandistica. Vari ne possono essere gli ingredienti: […] il rapporto diretto tra popolo e leadership; i toni tradizionalisti e quelli moralisti».
Populismo, localismo e loro odierna vittoria
A questi elementi originari si aggiungeranno, già presenti nella rivolta, ma ancor più nello sviluppo dell’“ideologia” populista nei decenni successivi, la critica alla partitocrazia, la progressiva sfiducia dei cittadini, il distacco dalla politica e dalla partecipazione democratica attiva:
«Il proliferare di una politica legata alle lobby affaristiche criminali dei decenni successivi è un indice, però, degli effetti più profondi e più inquietanti di quel processo di discredito della classe dirigente e politica, calabrese e nazionale».
Inoltre, da non sottovalutare il localismo, oggi dirompente e in espansione, grazie soprattutto alla propaganda, ormai pluridecennale, a volte cinica, della Lega Nord:
«Con il declino delle ideologie universalistiche, il senso di appartenenza territoriale assume una maggiore incidenza nel dibattito pubblico, crea consensi e orienta comportamenti».
In pratica, l’odierno quadro della politica italiana:
«Sembra che lo spirito della rivolta di Reggio, il localismo municipale, non si sia affatto spento […]. Non è solo la competizione tra territori, così evidente oggi in epoca di globalizzazione, l’unico aspetto della rivolta che ne mostra i tratti della attualità […]. La crisi della rappresentanza verificatasi a Reggio nel 1970 assunse alcuni tratti poi diventati in modo netto e stabile caratteristici del sistema politico: l’affermazione di una dimensione personalistica della politica, allora contenuta e modulata dalle organizzazione di partito e oggi, viceversa, capace di regolare le forme dell’aggregazione e del confronto; la proliferazione di comitati civici e di base che, in diversi contesti, si battono per un “bene comune” definito territorialmente; la diffusione e l’efficacia di toni populisti, in particolare antipartito, che denunciano il distacco tra la società e la politica».
Si perviene così alle attualissime conclusioni di Ambrosi:
«La rivolta appartiene pienamente agli anni Settanta, come periodo di crisi e di cesura della storia d’Italia. Essa fu un segno grave e premonitore, per quanto territorialmente circoscritto, delle fragili basi di consenso su cui era basata la “repubblica dei partiti” e su cui sembra fondarsi, dall’Unità d’Italia, la classe dirigente nazionale. La protesta reggina del 1970 ebbe certo una peculiarità territoriale, reggina, calabrese o meridionale, ma ciò non vuol dire che i processi storici che addensarono in essa fossero tipici di un’area geografica piuttosto che di un’altra. In questa prospettiva, la rivolta appare anticipatrice di processi che si sarebbero affermati in seguito, su scala nazionale e non solo, e può essere osservata come l’inizio di tendenze pienamente dispiegatesi nel presente piuttosto che come il retaggio di un antico passato».
L’immagine: Reggio Calabria 1970: barricata nel rione Santa Caterina (foto inedita di anonimo).
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno X, n. 115, luglio 2015)
LucidaMente si era già occupata de La rivolta di Reggio. Storia di territori, violenza e populismo nel 1970 di Luigi Ambrosi nel n. 42 del giugno 2009, con la recensione di Mirko Altimari: Il capoluogo come simbolo identitario di un’intera città. Nello stesso numero Simone Jacca aveva intervistato l’autore in: «Un’esplosione di collera collettiva».Lo stesso Tripodi, poi, nel n. 48 (dicembre 2009), aveva pubblicato Ordine pubblico: Reggio 1970-71.