Talvolta riusciamo a riconciliarci con la letteratura: quando leggiamo ancora scrittori in grado di concepire e generare pagine il cui scopo è quello che dovrebbe essere sempre vivo nell’istituzione letteraria: la ricerca della bellezza, della raffinatezza, della sperimentazione delle potenzialità del linguaggio, delle immagini, delle metafore, delle analogie, dei suoni, come strumento/fine per uno scavo impietoso tra le pieghe dell’esistenza e negli abissi celati/esposti della realtà. Stiamo parlando di Dal fondo del metallo (pp. 64, € 12,00, sesto volumetto della collana di letteratura Nerissima della inEdition editrice/Collane di LucidaMente) di Erika Dagnino.
Come assaggio del libro offriamo cinque “movimenti” (III-VII) inseriti nella prima parte dell’opera.
III
Le schegge di vetro impallidiscono al rossore del palmo che le ha rubate. Posso passare ora, ora che ho questo nuovo paio di specchi spaccati in due sole tinte.
La mano in pieno cerchio tiene, tinge la sua esistenza frammentata, disposta a darla in prestito senza alcun preavviso. Appoggiando il fiato smodato alla parete, ricorda l’occhio, che unisce le dita e i polpastrelli annusando un granello di falso pepe, ricorda il fiato ancor prima delle dita a strapparlo dall’oscillazione sparsa del ramo.
IV
Quella pozzanghera è la fradicia impronta di un gigante ferito. Nello stomaco vuoto degli occhi vuoti si specchiano guizzi, boccheggiano di un pesce d’aria. Il gigante tenta di pescarlo, e scorticando col manico ricurvo del suo ombrello – amo luccicante di finzione.
Non si accorge del piede ferito. Il pesce non abbocca.
La pioggia non riprende. Si allontana dagli occhi ancora la percezione della fame, si allontana dagli occhi ancora non si ridesta quella della sete. Assenti, assenti. Guardano.
Prova, apre la tela: non funziona nelle sue mani quella strana forma dagli strani tramagli. Sembra una grossa trafitta medusa. Abbandona la rete, no, non l’abbandona, abbandona l’amo, no, non l’abbandona. Resta a guardare. Così verso il cielo: squarci gonfi di nubi. Se verso terra: chiazze d’asfalto cave. Non si accorge del piede già privo di tremore, no, non si abbandona.
“Guizzerà, guizzerà, prima o poi in un’altra pozzanghera guizzerà”.
V
Mentre a raccogliere dietro il cespuglio appesa al ramo quella strana palla spaccata in due, non due metà sì due interi, suoi. Potessero gli occhi maldestri al pari dei palmi, sentendo lo stesso spessore o peso. Non vedendo non più scavando riflessi in qualunque cristallo salmastro, livido, o d’acqua o dolce, quel ronzante nido si fa appeso in piena guancia.
Palliforme, palliforme o petaliforme o d’oro. Chiuso dentro, il nido, chiuse dentro, ronzano, rilanciando al rimbalzo, il cespuglio farà da pietra ai palmi, che il vento lascia cadenti a picco alla terra ferma.
VI
Se si dice ali spezzate. Di qui sull’asfalto un’ala di piccione è l’ala strappata, caduta come cade il pungiglione di un’ape.
Chi sa come chi sa come avrà violentato quell’ala, con il suo osso aguzzo così come un grosso pezzo d’amo, finché d’arpione.
E’ qui a mancare tutto il resto del corpo, caduto per certo per dove dopo aver barcollato a tremiti imitando al monte la gialla la verde mimosa.
VII
Oscillazioni di fiori rossi dal bianco essiccato estivo; a gocciare l’umidità è sulla roccia estiva, nel buio nella galleria della vecchia linea vuota e tra due luci. Il mare sponda il rumore dell’andare, se pulsa al tatto la distanza di una ruota di steli, dove là con l’estate il cardo buio di dio.
Messo un luogo sul riflesso, si muore si muove sul posto pur se frastagliandosi di grigio, di azzurro, di l’occhio increspato.
Appesa slogata l’agave tra vento e roccia e cade trattenuta a picco dalla parete. Tra la roccia e la pietra seppur un’aderente crepa.
Ho sudore dallo stomaco vuoto. Suda o sangue? Una scheggia appena. Se mi arrampico, se dove l’acqua cola; se mi arrampico l’umido cola a picco l’ombra, se a picco l’ustionata ombra, dal calare del sole al calare del sole. I denti digrigna e digrigna la risacca e schiuma. Apri a guscio a togliere la scheggia dentro approfittando dell’ombra e ancora, e vedi e vedi e non c’è altro addetto alle tue dieci dita.
(da Erika Dagnino, Dal fondo del metallo, Postfazione di Massimo Caviglione, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: Sides (realizzazione della stessa Erika Dagnino).
Francesca Gavio
(LM EXTRA n. 15, 15 giugno 2009, supplemento a LucidaMente, anno IV, n. 42, giugno 2009)