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“A presto, Ernest, vecchio furfante!”

Dalla redazione by Dalla redazione
15 Dicembre 2006
in INEDITION
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Il vecchio scese dalla bicicletta e l’appoggiò al muretto del battistero. Maledizione, pensò, ho già il respiro affannato dopo una biciclettata di pochi metri. E dire che poco tempo prima riusciva a percorrere senza problemi tutto l’argine San Marco, a vedere le orgogliose campagne che si stendevano sotto di lui, a respirare l’acre odore del grano appena falciato mischiato a quello ombroso della terra contaminata dal fiume.
Al diavolo, si sedette sulla gradinata e si accese la pipa inspirando vigorosamente e producendo dei volatili sbuffi di fumo che si confondevano nell’etere e salivano sempre più su fino a raggiungere le nuvole e materializzarsi in loro.
Avrebbe voluto poterlo fare anche lui, volare su, anche solo per sapere come stava Ernest. Quel caro vecchio furfante di Ernest… che anche in quel momento, dalla lapide ove era infisso il suo ricordo, sembrava trafiggerlo con il suo sguardo lievemente beffardo. Maledizione, Ernest, ma dovevi proprio morire così? Non è una bella morte, credo… ma può anche darsi che avessi ragione tu come al solito. Il piombo può darti una morte gloriosa. Cosa vi è di epico nel fermarsi di un vecchio muscolo, nel sentirti il braccio destro formicolare, nell’avere appena il tempo di lanciare l’ultima bestemmia e rendere l’anima al Creatore!?
Sono un sopravissuto, pensò il vecchio, alla guerra e alla morte, ma sono anche un sopravissuto alla vita. Lo scorrere quotidiano, monotono e uguale ti ammazza più della guerra. E questo Ernest lo aveva capito. Era un galletto ruspante, un pien de mòrbin, come diciamo noi qua a Fossalta. Per questo non aveva mai voluto fermarsi a lungo in un posto, non aveva mai cercato la sicurezza della quotidianità. Cribbio, ti ammazza di più una moglie che un soldato nemico. Poi considerò che forse era ingiusto, in fin dei conti Sara era stata una buona moglie, gli aveva dato dei bei figli e una vita serena.
Nonostante ciò, c’erano stati tanti momenti in cui aveva rimpianto di non aver accettato l’invito di Ernest ad andare con lui negli Stati Uniti. Chissà, avrebbe potuto fare e vedere tante cose… o magari diventare il classico immigrato italiano rintanato a Little Italy, a parlare solo italiano o veneto.
Quando diventi vecchio capisci che i rimpianti non servono a nulla, solo a farti venire l’ulcera. Però ricordare era bello. Quando ricordava si sentiva di nuovo vivo, percepiva il sangue fremere nelle vene e il cuore battergli all’impazzata.
Per questo spesso veniva lì, al vecchio battistero, ultimo baluardo di una Fossalta che ormai non c’era più, divorata dall’asfalto, simbolo del decadente progresso, e ricordava.

Ricordava quei giorni così lontani in cui aveva solo diciotto anni, era uno del ragazzi del ’99, e faceva il soldato. Combatteva nella sua Fossalta, dilaniata dalle bombe degli austriaci e ridotta ormai a un cumulo di fumanti macerie. Della chiesa erano rimasti soltanto qualche capriata e i muri dell’abside crivellati dalle bombarde e dalle mitraglie, l’argine San Marco era tutto un rudere, la stazione ferroviaria era a stento in piedi e piazza Vittoria non esisteva più. Gli Austriaci, nel corso della loro ultima offensiva, l’avevano rasa al suolo. Fu in quei giorni che conobbe Ernest, serviva come volontario nella Croce Rossa. Era rimasto leggermente ferito alla spalla e proprio Ernest lo aveva portato presso il dottore giù al campo. Da quel momento ci furono spesso ritrovi a base di bevute di grappa e lunghe chiacchierate. Lui ed Ernest avevano le stesse idee riguardo a tante cose, soprattutto le donne… lui adorava le italiane. Ah, Ernest, ti sono sempre piaciute troppo le donne, tutte le donne!
Voleva fare il giornalista, parlava molto spesso di quello. Lo intrigava l’idea di poter andare ovunque e avere storie da scrivere. Per questo si era arruolato, voleva vedere e raccontare. E non era rimasto deluso: quel coacervo di umanità spalmata nelle trincee gli poteva dare elementi per scrivere qualunque cosa egli volesse.
Io, invece, pensò il vecchio, gli raccontavo della mia terra. Ero attaccato in maniera viscerale alle mie radici e mi sgomentava la sola idea di staccarmi dalla mia casa, dalla mia famiglia, nonostante Ernest, con i suoi racconti, accrescesse sempre di più in me la curiosità. Devo dire che lo invidiavo. E, paradossalmente, lui invidiava me. Diceva che gli Americani sono incapaci di un vero amore per la loro terra intesa come miscuglio di tante cose. E si faceva raccontare di quando aiutavo mio padre nel lavoro nei campi, delle nostre alzate prima dell’alba, del sudore che grondava dalla nostra fronte e scendeva per la schiena procurandoci assieme al rivoltare della terra un brivido. Era avido di particolari circa le mie avventure nella grava e quando rimembravo le mie nuotate nel Piave lui sembrava quasi rimpiangere le sue acque. Ernest amava il Piave, forse più di me. Diceva che era un’entità viva, che a volte la notte lo si poteva sentire sospirare. Una volta uscimmo di notte, sfidando i bombardamenti e ci mettemmo sulla riva del fiume ad ascoltarlo. Udimmo i suoi racconti, raccolti presso tutti i luoghi che toccava. Ci facemmo cullare dal racconto della ragazzina sfuggita ai soldati austriaci, addolorare da quello del vecchio ammazzato solo per aver tentato di proteggere la sua vacca, ma soprattutto fummo sopraffatti dalle grida di dolore che il Piave emetteva poiché le sue acque dal verde turchino smerigliato con riflessi primaverili erano diventati di un rosso cupo e tetro, il rosso del sangue.
Il Piave ci faceva rimpiangere la nostra giovinezza, sapevamo tutti e due che ormai era alle nostre spalle e che davanti a noi si prospettava comunque un futuro alquanto decadente. La guerra in un certo senso ci aveva corrosi, aveva portato via la nostra innocenza e non ce l’avrebbe mai più restituita. Soprattutto Ernest sentiva questo, con la sua faccia da eterno fanciullo… e tutto il suo girovagare assomigliava alla ricerca dell’isola che non c’è. Per lui era tutto una continua sfida. Voleva assaporare nuove cose, farsi continuamente travolgere. Era malato d’amore, Ernest. Voleva amare tutto, possedere e inglobare tutto. Forse per questo la storia di Agnes gli fece particolarmente male… ma tant’è, Ernest seguiva un suo percorso tutto particolare. Percorso che finì raggiungendo il suo inizio con quel romanzo che scrisse, il “romanzo di Venezia” lo chiamava. In realtà pensava alla morte quando lo scrisse.

Quel 18 luglio è ancora oggi alquanto vivido nella mia memoria di vecchio. Si dice che man mano che si invecchia si disperdono sempre più cellule cerebrali e ogni cellula è un ricordo, per cui è come se tu dimenticassi i ricordi. Però, la cellula che contiene il 18 luglio sarà quella che vivrà più a lungo di tutte, quella che morirà quando morirò io stesso.
Io ed Ernest eravamo, come ogni giorno, sul campo di battaglia a danzare con i nostri demoni, a tenere compagnia ai nostri fantasmi. E il Piave ci accompagnava con il suo lungo, sommesso canto. Un canto di eroi, di sangue, di morte, ma soprattutto di vita. E noi ci aggrappavamo a quella litania per sopravvivere ma anche per essere uomini. Purtroppo non si può mai essere abbastanza uomini, nonostante la guerra. O forse proprio per la guerra.
Ci trovavamo entrambi davanti a Fossalta, in una delle anse del Buso Borato, quando vidi Ernest cadere. Non sembrò neanche che fosse stato colpito, pareva quasi impegnato in un perverso balletto senza alcun controllo fisico e che si concludeva con il contatto più intimo, più profondo che ci fosse con la terra, nostra Madre. In quel momento tutti e due perdemmo il senso dell’immortalità. Entrambi vedemmo in faccia la morte: fu come se le schegge di un proiettile di mortaio avessero colpito anche me oltre che Ernest. Caddi con lui, soffrii con lui. Non per la morte, ma per aver scoperto la vita.
Da lì cambiammo tutti e due. Io rimasi al fronte ed Ernest fu trasferito dapprima a Mestre, poi a Milano, dove fra le varie operazione alla gamba conobbe anche Agnes. Buffo, chissà cosa sarebbe successo se lei avesse accettato.
Rividi Ernest quando, dopo aver lasciato la Croce Rossa si arruolò nell’esercito italiano e combatté con il mio stesso grado, semplice fante, fino all’armistizio. Ma soprattutto ci ritrovammo trent’anni dopo, nel ’48, quando Ernest compì il suo pellegrinaggio a Fossalta per compiere il suo rito liturgico.
Fu la riunione di due vecchi davanti a un fiume, il Piave, che non parlava più loro. Lì capimmo di aver perso anche il senso della vita di cui si faceva portatore quel vecchio aedo che usava l’acqua come strumento musicale.

Il vecchio si riscosse, spense la pipa e si alzò in piedi. Quasi per sbaglio il suo sguardo si posò sulla lapide collocata lì vicino e non poté fare a meno di leggere le parole che vi erano incise: Io sono un ragazzo del Basso Piave. Ernest Hemingway. Gli sfuggì un sorriso ironico e disse ad alta voce: “A presto, Ernest. Il Piave ci aspetta entrambi”.
Inforcò la bicicletta e pedalò lentamente verso casa scomparendo nei raggi giallastri del tramonto che lambiva il fiume.

(Io, ragazzo del Basso Piave)

Matteo Polo

Quasi ventiseienne, veneto, l’autore ha conseguito la laurea in Storia della Società europea inseguendo il mito della Grande Guerra, di cui è tuttora un appassionato studioso, come si evince dal racconto testé pubblicato.
In attesa di entrare in un dottorato di ricerca, si divide fra la ricerca, la pubblicazione del suo primo libro, la collaborazione con alcune case editrici e il lavoro di bibliotecario.

IL COMMENTO CRITICO

Io, ragazzo del Basso Piave, di Matteo Polo, è un breve racconto in cui viene affrontato il tema di un passato lontano, che si presenta alla memoria ora col volto terrificante della guerra, ora con quello incantevole delle illusioni della giovinezza.

La voce del Piave – Lungo le sponde del Piave, il protagonista-narratore, ormai vecchio, ripercorre l’estate del 1918, quella torbida dei combattimenti nei campi dove, tra il sangue e ed il dolore, nasce un’amicizia dal sapore di vita. Due figure, apparentemente disparate e inizialmente unite solo dal combattimento, scoprono di credere negli stessi valori udendo il bisbiglio del fiume Piave, che riporta loro storie di morte o di sopravvivenza – fruscii e fiati di voci dal sottofondo dolentemente danzante-, ma, in ogni caso, vicende alle quali i due sentono di appartenere.

Lo spegnersi della giovinezza – E’ così che, agli occhi del protagonista, la vita vera sembra cristallizzarsi tutta in quell’attimo, in cui cercare di resistere alla morte sembrava l’unico obiettivo, senza rendersi conto che la fine della vita sarebbe comunque sopraggiunta al termine di quell’istante nel quale si esauriva anche la giovinezza. E un’intera esistenza non sarebbe bastata a rievocarla.

Ernest e la memoria – E che l'”altro” si chiami Ernest – Hemingway, beninteso -, non muta la sostanza del racconto: un incontro di esseri umani, sullo sfondo di due “terre”. Quella veneta, vicina, contadina, “Matria”, e quella lontana, mito contemporaneo, l’America delle infinite possibilità, dei sogni da realizzare. Il testo di Polo, pertanto, si dipana sofficemente nel transito del tempo, collocandosi entro diversi piani temporali ed esistenziali, saldati dai filamentosi eppur vividi ricordi della voce narrante.

L’immagine: particolare del Sacrario di Redipuglia.

Claudia Mancuso

(LucidaMente, anno II, n. 15, marzo 2007)

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Tags: argine San MarcoCroce RossahemingwayineditoIo ragazzo del Basso PiavemancusoMatteo Polonarrativapiaveprima guerra mondialeracconto
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