La pellicola di Matthew Heineman racconta la storia della reporter morta in Siria nel 2012 e spinge a riflettere sul giornalismo stesso
Quella del reporter di guerra è una missione: affrontare l’orrore e rischiare la vita tutti i giorni per raccontare quello che succede al fronte non può essere definito in altro modo. Anche se il prezzo da pagare è molto alto – a volte con la stessa vita – è qualcosa di cui chi svolge questo lavoro probabilmente non può fare a meno.
È quanto si coglie nel film A private war (Usa-Regno unito, 2018) di Matthew Heineman, uscito nelle sale italiane lo scorso 22 novembre. L’opera cinematografica racconta gli ultimi dieci anni della vita, della carriera e della battaglia personale di Marie Colvin (interpretata da Rosamund Pike), giornalista americana inviata di guerra per il Sunday Times, morta in Siria sei anni fa proprio mentre stava svolgendo il proprio lavoro. Ci viene mostrata una donna coraggiosa, testarda, determinata, ossessionata dalla ricerca della verità e dalla necessità di raccontare ciò che avviene sui principali fronti (Sri Lanka, Afghanistan, Iraq, Libia), fino al conflitto siriano che le è costato la vita. Una vita tutt’altro che semplice, divisa tra il bisogno di essere presente come testimone nei luoghi di guerra per dare voce ai civili – le vittime principali di ogni conflitto – e l’immenso orrore che tali esperienze le lasciano dentro [la Colvin soffriva di disturbo post traumatico da stress, lo stesso che colpisce i militari, ndr].
Il racconto della verità, troppo spesso nascosta dai governi e dagli stessi media, era per lei un vero e proprio “compito”: i suoi articoli narravano prevalentemente le storie di chi stava vivendo, e subendo, in prima persona il dramma della guerra. Questa ricerca quasi ossessiva di testimonianze di civili, secondo lei (ma non solo) gli unici reali perseguitati, aveva un fine ben preciso: suscitare nei lettori un sentimento di empatia, farli immedesimare nella sofferenza di persone come loro, vittime però di giochi di potere, alleanze, strategie, e che vedono crollare le proprie case sotto le bombe e morire figli, mariti, mogli, fratelli e sorelle, senza capirne davvero il perché.
Una visionaria che sperava di cambiare il mondo e di smuovere le coscienze, documentando – e vivendo lei stessa – gli stupri, le fosse comuni, gli attentati. Una ricerca della verità che pare incoscienza – si ha quasi l’impressione che non le interessasse la propria incolumità – ma che contemporaneamente affascina e trasmette il senso di tanta determinazione e imprudenza. La Colvin è deceduta a Homs, in Siria, nel 2012, mentre stava documentando la tragedia quotidiana dei civili intrappolati sotto le bombe di Assad. Ed è proprio alla fine del film, con la morte sua e del fotografo francese Rémi Ochlik, che viene da interrogarsi sul ruolo del giornalismo: fino a che punto è giusto spingersi? Che tipo di immagini e di racconti devono arrivare dai conflitti? Che utilità possono avere i reportage di guerra? Quali tutele devono avere i reporter? Nel 2003, in Iraq, si è applicato per la prima volta l’embedded journalism (citato anche nel film), ossia l’integrazione dei giornalisti al seguito delle truppe militari, così da “proteggere” gli inviati, ma in realtà pure con l’intento di filtrare le notizie in uscita; pratica oggi messa in crisi dalla massiccia diffusione di Internet e dei social, che rendono impossibile una selezione totale delle informazioni.
Un tipo di giornalismo che non prevede il contatto con la popolazione locale e che la stessa Colvin rifiutava, sfidando tutto e tutti per documentare quello che veramente succede alla gente. Alcuni dei conflitti da lei raccontati sono ancora in corso: l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria sono paesi in cui la pace è lontana e dove le persone continuano a morire nell’indifferenza generale. Allora sorge spontaneo un dubbio: il sacrificio della Colvin, di tutti quelli che come lei sono morti svolgendo il proprio lavoro, di quelli che continuano a farlo, incuranti dei pericoli e con il solo obiettivo di informare, è forse vano? Certo che no. C’è sempre più bisogno di persone che sacrificano tutto per il dovere di dire la verità, anche quando questa sembra non interessare a nessuno.
Le immagini: la locandina del film A private war di Matthew Heineman e una foto di Marie Colvin, reporter di guerra uccisa in Siria nel 2012.
Elena Giuntoli
(LucidaMente, anno XIII, n. 156, dicembre 2018)