Nelle parole dei giovanissimi stranieri nelle comunità di accoglienza emergono verità e contraddizioni della nostra società. Mentre alcuni intellettuali e politici sembrano enfatizzare differenze, su tutto e in tutti prevalgono conformismo, consumismo e modelli subculturali deprecabili
I nostri giovani «non sanno più fare le guerre», e muoiono di disoccupazione e droga. Sono deboli. Al contrario, gli immigrati sono dotati di «potenza biologica», frutto di una sfida disumana, imposta dall’attraversamento di interi continenti. «Loro» sono destinati a vincere, a imprimere nuovi valori sopra le ceneri dell’Europa. «Noi», a soccombere.
Così, nel luglio 2016, al termine di una lunga intervista nella suggestiva gipsoteca del Museo Canova a Possagno (Treviso) si esprimeva Umberto Galimberti. Il noto filosofo e saggista, come un vecchio senatore romano, attribuiva la responsabilità della sconfitta della nostra civiltà al disordine etico imperante. Non sembra, dunque, così lontano, questo guru di una sinistra invecchiata male, dall’opinione di Matteo Salvini, che definisce «palestrati» gli africani che «ci invadono» e propone la reintroduzione della leva militare per i giovani italiani. Pochi ormai difendono a spada tratta l’accoglienza, e l’immigrazione è per molti la rovina di questo paese. Ma ascoltiamo le parole degli adolescenti stranieri ospiti di due centri di accoglienza di Bologna. A., diciassettenne albanese, minorenne, è un immigrato irregolare, e la pensa esattamente allo stesso modo: «Prima dell’immigrazione l’Italia era meglio». È qui da quattro mesi, poco più di S., diciottenne gambiano, anche lui irregolare. Mi dice che i tempi d’oro, comunque, sono finiti. «Adesso Salvini», sussurra.
S. ha affrontato il lungo viaggio che separa dalle sponde del Mediterraneo tutti i ragazzi provenienti dall’Africa subsahariana. Le direttrici coincidono con quelle percorse, nell’evo antico, dagli schiavi che giungevano a Roma. Lo ha spiegato sulla rivista Atlantico Giuseppe Campagnano, fondatore della rivista Zhistorica (Immigrazione: oltre luoghi comuni e paragoni di matrice politica). Ma le somiglianze si fermano qui. Perché, arrivati in Libia, uomini armati ti puntano addosso, con una mano, il fucile, con l’altra, un cellulare. «Devi farti mandare i soldi», mi dice S., con una risata isterica. Alcuni suoi amici sono morti così, davanti ai suoi occhi. Altro che «potenza biologica»: è il dio denaro, ancora una volta, a distinguere chi sopravvive da chi, semplicemente, scompare.
Siamo così diversi, dunque? Messaggi di edonismo e di successo facile sostituiscono, per molti adolescenti delle comunità, l’occupazione e gli sforzi necessari a raggiungerla. Lo stesso è per i nostri millennials. La noia ostile per la scuola e per la fatica. L’impulso alla pigrizia, all’autodistruzione. B., anche lui albanese, vive attaccato allo smartphone tanto quanto i Marco e i Paolo di qui. Vorrebbe possedere un mucchio di soldi, tanti da gettarne dal balcone sul marciapiede. Caricare per strada una ragazza, invitarla a togliersi le scarpe prima di salire sulla sua (immaginaria) auto di lusso: «Se no me la sporca, sai». Citazioni e atteggiamenti di una non-cultura proposta dai testi di sedicenti artisti di un dilagante fenomeno pseudo-musicale, la trap music. Testi di cui un articolo comparso su Vita (Droga, individualismo e zero pensieri. Viaggio fra i parolieri della Trap) mostra i lati più ambigui e preoccupanti. Piuttosto, la debolezza degli europei sta nella demografia, come spiega bene il direttore di LucidaMente (Demografia, sovrappopolamento, distruzione dell’ambiente… e migrazioni).
«L’Italia è uno schifo, vattene via». Siamo noi stessi a ripeterlo. Come si può desiderare il bene di qualcosa che si respinge? L’emergenza è l’educazione: al rispetto e alla cura di questo piccolo pezzo di terra in cui dimoriamo. Mentre ci scorrono attorno il turismo di massa, i fast food culturali, l’esproprio di identità attraverso un nomadismo radicale, esistenziale, globale. C’è tutto in questo articolo di LucidaMente (Il turismo “mordi e fuggi”, un’arma a doppio taglio della globalizzazione). La fuga è un sentimento che accomuna entrambi, «noi» (la «generazione Erasmus») e «loro». Che ci sottrae alle responsabilità quotidiane e che imbruttisce questo già difettoso Paese. Quando sta a letto, H., che sia in Pakistan o a Bologna, sogna la California, come il titolo di quel celebre brano che già nel 1966 i Dik Dik cantavano in italiano: «Sento solo freddo / fuori e dentro me, / ti sogno California / e un giorno io verrò».
Le immagini: Thomas Cole (1801-1848), Consumazione dell’Impero, terzo dipinto della serie Il corso dell’Impero (olio su tela, 1836, New York: New-York Historical Society); una cartina del mondo appesa a un muro di una struttura di seconda accoglienza: da notare l’Italia, strappata via.
Federico Tanaglia
(LucidaMente, anno XIV, n. 162, giugno 2019)