“L’altro volto della speranza”, Orso d’argento all’ultima Berlinale del cinema, narra con estrema chiarezza il fenomeno migratorio dalla Siria all’Europa, semplificando i concetti che la politica ha complicato
Uno dei più importanti problemi relativi alla realtà migrante, forse il principale, riguarda la percezione che la società ospitante ha della sua missione di accoglienza dello straniero realmente profugo da una situazione di guerra o persecuzione. La classe politica – e con essa gran parte delle piattaforme divulgative – dovrebbe interpretare per prima i cambiamenti del mondo e fare da filtro tra questi e la quotidianità, ma non riesce a offrire una visione completa della questione.
L’ansia di canalizzare nella propria corrente i flussi elettorali guida la gran parte degli interventi pubblici dei leader politici e contribuisce a rendere sempre più caotico il caravanserraglio dell’informazione: sugli schermi di tutti i tipi di dispositivi elettronici appare un quadro frammentario del discorso sui migranti, che cela le possibili soluzioni proprio come fa uno specchio rotto con le immagini riflesse. Si va dall’idea renziana di rispetto dei diritti umani, stando bene attenti a non fare il lavoro sporco per il resto dell’Unione europea, alla totale ambiguità grillina, che di tanto in tanto strizza l’occhio agli ambienti di destra, passando per le assurdità dei 35 euro al giorno, degli hotel a quattro stelle, del wi-fi gratis e degli affitti non pagati.
Tale rumore di fondo, gentilmente offerto dalla società postmoderna, nutre la postverità e facilita la diffusione capillare delle bufale: a questo punto, diventa anche scomodo mettersi a cercare le fonti tra le notizie sfocate dal rapido su e giù della home di Facebook. Per trovare qualche risposta soddisfacente o, almeno, evitare l’emicrania rampante, si consiglia di rifugiarsi in posti semideserti e isolati: il cinema più vicino che proietta l’ultimo film di Aki Kaurismäki, L’altro volto della speranza, vincitore del premio Orso d’argento alla regia all’ultimo Festival di Berlino, è più che adatto al caso nostro.
La pellicola narra le vicende di Waldemar, un uomo di mezza età in fuga dal matrimonio, e Khaled, un rifugiato siriano appena arrivato in Finlandia. Dopo Miracolo a Le Havre, Kaurismäki torna a raccontare una storia di emarginazione e di incontro. In questo caso, è illuminante afferrare che c’è un destino comune per chi scappa da una guerra sanguinaria e chi si allontana da una moglie annoiata con problemi di alcolismo. Le scene che introducono entrambi i personaggi sono assolutamente prive di verbo e la marmorea fissità delle inquadrature sembra suggerire il volontario mutismo della macchina da presa stessa: il passato e il presente dei protagonisti va dedotto da una fede nuziale sommersa in un posacenere dei grandi magazzini e dal volto di Khaled al termine di un lungo viaggio a bordo di una carboniera.
Nicola di Monte, in un articolo apparso su il Fatto Quotidiano, parla di “antiretorica” per descrivere la capacità del regista finlandese di raccontare storie senza troppi fronzoli e senza mai sfociare nell’ampollosità, ma la tematica fondamentalmente politica del film impedisce di poter glissare sugli aspetti enfatici della narrazione. È vero, c’è un’evidente ricerca dell’essenziale, ma c’è soprattutto – per chiamare in causa un pezzo d’antiquariato – quella che Quintiliano definisce “retorica della sottrazione”: una strategia che riconosce nell’emendazione il suo punto di forza, che non si preoccupa di spiegare tutto ma di portare il messaggio a un secondo livello della comprensione. Poco più in basso della superficie.
Nel film si parlano arabo, finlandese e inglese come lingue veicolo; Khaled riesce a comunicare in maniera basica, ma per esprimersi davvero si affida ai cenni, parole non dette, solo leggermente soffiate. Tutta la pellicola è intrisa di amputazioni e suture operate dal regista e, per risalire alla morale, lo spettatore deve concentrarsi sulle cicatrici. Ciò che viene solo sussurrato dalla sceneggiatura è ripetuto con più intensità dagli altri elementi dell’apparato filmico. Gli intermezzi musicali sono, come al solito, molto frequenti: pare che Khaled sia costantemente seguito da un musicista di strada o da un’intera band. Il tappeto sonoro delle scene costituisce anche l’ossatura della narrazione: il linguaggio universale della musica dà una possibilità di riscatto all’emarginato in terra straniera e le sonorità – quelle clinicamente adatte a chi si mette in cammino – spaziano dal country al blues e nei testi sono incastonati i concetti eterni di apertura al diverso, scacco alla paura, fiducia nell’umanità.
La necessità di cercare il cambiamento e la contaminazione tra etnie diverse si fa impellente nei luoghi della pellicola, nello specifico nel mercato della ristorazione: Waldemar, da gestore di un tipico locale finlandese, capisce che per ampliare la sua clientela deve riuscire a soddisfare la pressante, quasi ottusa, pretesa di multiculturalismo della società in cui vive. Così la Pinta d’oro diventa Imperial Sushi, in uno scenario perfettamente tragicomico che è il terreno ideale per l’umorismo ora ammiccante ora disarmante di Kaurismäki. Il risultato è ai limiti del grottesco e si sporge sul confine del paradossale, almeno tanto quanto un piatto di nigiri preparato con acciughe sottolio e un quantitativo probabilmente letale di wasabi.
Il mondo in secondo piano resta tutt’altro che neutrale: in agguato dietro l’angolo ci sono gli skinhead xenofobi, facilmente riconoscibili dal grugno minaccioso e dal giubbotto in pelle nera con la scritta Liberation armi Finland; ma sempre lì dietro sta acquattato anche un gruppo di barboni armati di bottiglie, pronto a salvare Khaled dalle grinfie dei cattivi. Lo scontro tra emarginati e buttafuori non è l’unico presente nel film: avvicinandosi un po’ di più al cuore della società, si assiste alla guerra decisiva tra i doveri istituzionali dei dipendenti e gli obblighi morali degli esseri umani. Se gli uffici di polizia, ipovedenti e ingessati dalle macchinosità burocratiche, ordinano il rimpatrio ad Aleppo perché non ritengono abbastanza pericolosa la situazione siriana, l’infermiera del centro d’accoglienza aiuta il protagonista a scappare e un teenager falsario gli ricostruisce una nuova identità senza passare dal via.
Nella realtà quotidiana, estranea alla verbosità glitterata dei talk show, si decidono i destini delle persone. Non si sa quale, tra la dimensione televisiva e quella urbana, sia la proiezione dell’altra e provare a scoprirlo è il modo più rapido per ritrovarsi imprigionati in un labirinto specchiato senza una plausibile via d’uscita. Si sa, però, che Kaurismäki cerca una soluzione efficace al problema nell’iniziativa coscienziosa del cittadino, fatta di azioni. Nella resistenza silenziosa di quei singoli individui che ghignano sommessamente di fronte a uno slogan e inseguono la loro personale verità in fondo a uno sguardo.
Le immagini: alcune scene tratte dal film L’altro volto della speranza e una foto del regista finlandese Aki Kaurismäki.
Orazio Francesco Lella
(LucidaMente, anno XII, n. 137, maggio 2017)