Lunga intervista in esclusiva a tutto campo al poliedrico artista sardo, residente a Bologna
Poesia e musica, un bel connubio che ci fa sperare che le parole abbiano ancora la potenza e l’importanza di un tempo. A parlarcene in un’intervista per LucidaMente abbiamo Alberto Masala, poeta che ha fatto del mondo la sua casa. Nei suoi occhi si legge una buona dose di caparbietà che permette di credere nell’esistenza di un mondo molto più colorato di quel che pensiamo.
Il poeta e scrittore Masala nasce nel 1950 in Sardegna ma attualmente vive a Bologna. Durante la sua carriera opera nel contesto internazionale, collaborando con importanti poeti e musicisti provenienti da tutto il mondo. Pubblica in Italia, Francia e Usa, ma è anche protagonista di raccolte e antologie in vari paesi europei e arabi. Ha diretto progetti d’arte in varie zone del continente europeo e tradotto artisti del calibro di Kerouac, Ferlinghetti, Malina, Pey e Mereu. Non dimentichiamo le sue attività anche nell’ambito di performance, cinema, teatro e radio.
«Non so, non c’è un’età. Non me lo ricordo. A sei, sette anni, ho scritto un libro che ha vinto il Nobel. Nel senso che trovai un libro di mia zia, lo ricopiavo identico su un quadernone e fingevo di averlo scritto io. Mi piaceva perché era dorato e antico. Poi però da grande ho scoperto che quel libro aveva vinto un Nobel. Si inizia studiando e copiando. Per me quello è stato l’inizio».
Come si fa, se ci si riesce, a vivere di poesia oggi?«Oggi si vive male. Fino a sette o otto anni fa vivevo, ma ora non è tutto così facile. E meno male che non vivo solo di poesia, ma di tutto ciò che sta intorno alla poesia e la scrittura. Ad esempio, traduzioni, ma solo quelle che scelgo io, quando riesco a venderle. Ogni tanto ho fatto il ghostwriter, ho scritto per altri; si guadagna abbastanza. E ciò deriva dal fatto che ho molta tecnica. Immagina che sia come quando hai studiato bene la musica: sei un bravo esecutore di Mozart o Beethoven, conosci le sfumature tecniche a fondo, quindi puoi applicare il mestiere. Lo stesso vale per la scrittura».
In questo periodo a cosa sta lavorando?«Ora ho scritto un romanzo per ragazzi che mi è stato commissionato. Dopo un po’ di tempo, per stabilirne la trama, ho scritto la prima stesura in 15 giorni. Una volta che ho l’idea sono rapido. Poi, naturalmente, vi è il lavoro con l’editor, ma l’80% è già fatto. Inoltre, per vivere, ci sono i festival di poesia, le letture, gli incontri… e i seminari, per me quasi sempre nelle università estere. Infine, i concerti: ho lavorato con diversi musicisti di grande spessore. In concerto mi comporto come un jazzista improvvisatore e divento io stesso strumento. Inoltre ho scritto opere stabilendone anche gli andamenti e le dinamiche. Si vive di commissioni, insomma…».

«Adesso sto uscendo con tre libri. Il primo è quel romanzo commissionato del quale ho detto in precedenza. Sarà pubblicato anche un libro per bambini in cui faccio le cover di Palazzeschi, riscrivendole sotto forma di assurde filastrocche dove faccio piangere i bambini. È un omaggio a un autore “outsider” che è riuscito a passare indenne attraverso il fascismo con la sua intelligenza e una grande ironia. Poi a un certo punto è sparito e l’ha riportato fuori Mondadori negli anni Cinquanta, ricominciando a pubblicarlo. Credo che la poesia italiana sia una china autoreferenziale in cui, nella maggior parte dei casi, ci si è distaccati dalla sua funzione originaria: parlare alla gente, in nome della gente. Trovo che nella società contemporanea, proprio a causa di questo distacco, non ci sia una sufficiente conoscenza della poesia, e quindi non si riesca a capirne nemmeno la tecnica. Palazzeschi faceva un ternario perfetto e, dal momento in cui il ternario e tutti i suoi derivati si prestano molto a fare filastrocche, ho deciso di farlo».
E il terzo progetto?«Il terzo è una grossa raccolta, importante perché raccoglie 20 anni di poesia, ma verrà diffuso solo in America e nei paesi anglofoni. Non so ancora se pure negli Usa, ma in marzo lo presenterò in Irlanda e in Inghilterra. Mi ha tradotto una rockstar, Jonathan Richman. Perché una rockstar? Abbiamo lavorato molto sul ritmo e la musica di ciò che scrivo, non solo sul significato. Ed è il traduttore di Pasolini per City Lights di San Francisco, la libreria e casa editrice dei beats. L’ambito è quello della Beat Generation, che ho frequentato per anni. Ma questi sono tre libri di cui non sentirete molto parlare in Italia. E la cosa non mi preoccupa affatto…».
![15-masala-interview[1]](https://www.lucidamente.com/wordpress/wp-content/uploads/2016/06/15-masala-interview1-300x200.jpg)
«Partiamo dal fatto che il poeta è più veloce del digitale. Per quanto riguarda il pubblico, non mi sono mai posto il problema. Ogni volta che scrivo mi rivolgo a qualcuno, a un’area, a una questione, a un problema. Non scrivo per parlare di me e, se lo faccio, non è per pubblicare. Penso che uno non abbia il diritto di esporre le proprie miserie, di renderle universali, o crederle importanti per gli altri. Quando stai calpestando un metro quadro di mondo davanti agli altri, in una piazza, in un palco, in un foglio di carta, hai, invece, il dovere di trasportare qualcosa di rilevante che non parli in tuo nome».
Quali sono, allora, le regole imprescindibili?«Le tre regole per il poeta (e per ogni gesto d’arte) sono: attrarre con il genio, mantenere l’attenzione con il mestiere e trasportare il senso. Sono tre regole ferree e mai smentite. Parlo sempre trasportando senso, e sempre a qualcuno e di qualcosa. Rispetto a prima per me non è cambiato nulla, dato che indifferentemente raggiungo le persone in rete, in strada, in radio, in concerto, attraverso un libro».
Le sue poesie sono un composto inusuale di lingue e suoni. Spesso lei inizia in italiano, continua in francese, per poi passare allo spagnolo. Che importanza hanno per lei i vari idiomi?«Penso in sardo e ragiono in sardo. Ho la fortuna di aver avuto delle commistioni. In casa parlavo in logudorese orientale ma, se scendevo in strada per stare con gli altri bambini, dovevo parlare logudorese occidentale. Questo mi ha messo in contatto con le forme del castigliano. Inoltre mio padre mi parlava in turritano, il che mi ha fatto avvicinare al corso, al gallurese e al dialetto di Marsiglia. D’estate per più di un mese stavo ad Alghero e i miei amici parlavano in catalano, quindi per giocare dovevo imparare pure quello. La maestra, di Genova, ci obbligava all’italiano. A sei anni cambiavo lingua continuamente».

«Le lingue romanze mi vengono naturali mentre l’inglese è stato un po’ un obbligo. Da grande ho compreso che le lingue sono ritmo, musica, suono, andamento, respiro e che la proprietà delle parole è il passaggio successivo. Le regole, infine, sono il terzo stadio di approccio, che vai a studiare, se ti servono, da adulto e con più consapevolezza. Le uso in modo strumentale e simbolico o le mischio in funzione ritmica, sonora, letteraria, formale. Ripeto: quando uno studia musica impara a suonare, quando uno si occupa di letteratura deve imparare a usare le lingue. Io sono un polistrumentista e di questo ho coscienza. La musica della tua scrittura è uno degli elementi tecnici che serve a mantenere l’attenzione e a non annoiare. Io, quando scrivo, canto. Mi hanno allevato così. Se ciò che hai detto musicalmente non funziona, sei finito: è un discorso molto semplice, eppure in molti, soprattutto in Italia, non riescono a capirlo».
Le immagini: foto dell’artista Alberto Masala durante varie performance.
Claudia Serra
(LucidaMente, anno XI, n. 126, giugno 2016)