“Nel carcere c’è vita, una ristretta striscia di vita, dove esiste tutto: la speranza, l’umanità, i desideri, la fantasia; ci sono tutte le risorse che stanno anche fuori, e questo mi ha affascinato molto, per cui si sono fuse due cose: la mia curiosità giornalistica, che è istintiva per uno che fa questo mestiere da più di cinquant’anni, e quella che definirei una tensione morale, nel senso di dire “parliamo di questo argomento perché la gente non ne sa niente”, e quindi se può se ne frega, per non dire poi della classe politica, per cui il carcere è solo un fastidio”.
Candido Cannavò
(da http://www.ristretti.it/commenti/2004/gennaio/cannavo.htm)
Fare volontariato in carcere a seguito di esperienze shock
“Il 6 dicembre 1990 cadde un aereo militare a Casalecchio di Reno in provincia di Bologna, proprio sull’Istituto tecnico Salvemini, di cui allora ero preside. Il bilancio della tragedia fu terribile: dodici ragazzi di sedici anni morti, più di ottanta ricoverati per intossicazioni, ustioni e fratture e più di settanta invalidità permanenti. I primi a inviare messaggi di condoglianze e cordoglio furono alcuni detenuti del carcere della Dozza, che scrissero anche delle poesie dedicate agli alunni deceduti”. Questa la motivazione di Giuseppe Tibaldi, presidente dell’Avoc, Associazione volontari per il carcere, per iniziare un percorso di volontariato all’interno della casa circondariale “Dozza” di Bologna.
Anche Federico Veronesi, presidente del “Poggeschi per il carcere” e di professione ricercatore presso la Facoltà di Bioingegneria, intraprende tale cammino a seguito di un’esperienza molto toccante: “Ho conosciuto padre Fabrizio Valletti, fondatore del Centro Poggeschi, negli anni in cui si era trasferito a Scampia. L’ho seguito in quel quartiere per un breve periodo di volontariato e lì ho incontrato persone e bambini che sapevano meglio di me che cosa fosse il carcere in quanto almeno un familiare o un amico erano stati detenuti”. Da quell’incontro Veronesi ricava un forte desiderio di non emarginare quel mondo, ma di voler partecipare in esso e creare un ponte tra il “dentro” e il “fuori”.
Le attività di volontariato in carcere
“Nonostante i rapporti siano ottimi, esiste una collaborazione marginale tra le varie associazioni che lavorano in prigione. Noi cerchiamo di creare attività complementari, offrendo altre possibilità ai carcerati”. Con queste parole Donatella Draghetti, dirigente sportivo Uisp (Unione italiana sport per tutti) e responsabile delle attività in carcere, spiega come le varie associazioni “presenti” al penitenziario Dozza di Bologna abbiano ambiti di intervento differenti. Uisp da vent’anni svolge attività sportive come pallavolo, calcio, basket e cardio-fitness, mossi dal proprio motto “Sport per tutti!”, concedendo così ai detenuti momenti giornalieri di svago.
Il “Poggeschi per il carcere” offre laboratori di arte, un cineforum e la lettura settimanale del vangelo, con l’obiettivo di creare momenti di incontro e scambio con persone “esterne”.
L’Avoc si occupa delle attività di ascolto, dei colloqui individuali, del sostegno psicologico e della fornitura dei beni di prima necessità, in particolare di biancheria intima, abiti, scarpe, grazie all’aiuto della Caritas e delle donazioni di privati cittadini. I soci collaborano, inoltre, con il sistema penitenziario accompagnando i detenuti durante i “permessi premio” per consentire loro di coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro.
Tali organizzazioni pongono un occhio di riguardo alla scelta dei volontari: la Uisp vent’anni fa lavorava con allenatori sportivi, oggi invece si serve di laureati in scienze motorie privilegiando l’educazione attraverso lo sport.
Non solo “numeri”, ma persone!
“Come ho visto nascere profondi odi tra etnie diverse – racconta Tibaldi – così si sono creati momenti di solidarietà. Ho conosciuto un malato di diabete che rischiava quotidianamente il coma. Non essendoci mezzi di comunicazione tra le celle e i soccorsi medici, egli dormiva sempre con un dito o il polso legato a quello del suo compagno di cella cosicché, in caso di bisogno, avrebbe potuto strattonarlo, avvisandolo di chiamare i soccorsi”.
Privati dell’affettività e della sessualità, i detenuti vivono profondi turbamenti del proprio stato d’animo, che durante la reclusione li inducono a cercare il contatto fisico con gli altri reclusi, finendo così per praticare l’omosessualità. Consumano rapporti sessuali non protetti, in quanto, essendo vietato distribuire preservativi all’interno della struttura, non è possibile farlo nemmeno per le associazioni di volontariato, con il conseguente rischio di contagi di malattie veneree.
Fatta eccezione per i momenti messi a disposizione dalle Onlus, non si dà la possibilità ai carcerati di svolgere attività lavorative, se non di basso livello, come le pulizie. Il Cefal (Consorzio europeo per la formazione e l’addestramento dei lavoratori) organizza corsi di formazione professionale, tuttavia sono pochi gli sbocchi lavorativi, sia perché esiste una resistenza da parte della società civile ad accogliere l’ex detenuto, sia per la mancanza di fondi che possano pagare borse lavoro per attivare percorsi di reinserimento. L’alternativa al mancato reintegro lavorativo rimane per molti il ritorno alla delinquenza.
Il carcere, struttura totalizzante
“La prima difficoltà che si incontra lavorando in penitenziario – afferma la Draghetti – è quella di accesso alla struttura, proprio perché essa ha una conformazione rigida, che tende a rifiutare e frenare”.
L’approvazione dei progetti e delle attività da svolgere alla Dozza dipendono in primis dal direttore, oltre che dall’area pedagogica, dal magistrato di sorveglianza e dal comandante della polizia penitenziaria. Tuttavia, dal momento che esiste una carenza di personale e si è assistito a un cambio reiterato del direttore, alcuni nuovi progetti delle associazioni non sono stati accettati perché la struttura non era in grado di accoglierli.
Il cambio di dirigenza ha comportato un continuo ripristino della conoscenza tra le associazioni e la direzione, affinché si accreditassero nuovamente grazie alla loro serietà e professionalità.
Alternative alla detenzione
“È un mondo assolutamente senza speranza” ci dice Tibaldi. “Il trattamento carcerario è disumano, le celle sono sovraffollate, i servizi pessimi. Alla Dozza sono presenti millecento detenuti in un carcere che ne potrebbe contenere quattrocento. Inoltre gli educatori sono solo quattro: bisognerebbe domandarsi come possano in quattro valutare il profilo di millecento reclusi e far fronte ai loro disagi”.
Secondo Federico Veronesi, se si lasciano insolute le situazioni di disagio, si corrono dei rischi: “A volte il carcere diventa una vera università del crimine. E’ importante non rinchiudere in prigione i cosiddetti “deviati”, tossicodipendenti, malati psichici, immigrati, ma occorre che lo Stato investa in strutture di detenzione alternativa al fine di limitare la recidività”.
L’immagine: barriere carcerarie e cielo plumbeo.
Francesca Gavio
(LM BO n. 2, 15 aprile 2009, supplemento a LucidaMente, anno IV, n. 40, aprile 2009)