Pubblichiamo le analisi del presidente del Circolo Excalibur di Varese sulla deriva economico-finanziaria
In molti pensano che il debito pubblico sia il saldo negativo tra le entrate e le uscite del bilancio statale causato dai quei governi spendaccioni che negli ultimi decenni ci hanno fatto vivere al di sopra delle nostre possibilità. Non è così. L’incapacità, gli sprechi e le ruberie dei politici contribuiscono solo ad alimentarlo. La causa è ben altra. All’origine del debito pubblico, che ha generato nei conti dello Stato una voragine in continuo aumento, vi è un meccanismo ben congegnato definito “Signoraggio”. Un termine, non a caso, di origine medioevale.
Partiamo dalla Banca d’Italia, che non è la banca dello stato italiano, bensì un consorzio di banche private. Lo Stato è presente attraverso l’Inps e l’Inail con un minuscolo 5,6%, questo per giustificare la definizione di Ente di diritto pubblico. La Banca d’Italia – ora filiale della Banca centrale europea, anch’essa privata – svolge sostanzialmente due compiti. Il primo è quello di organo di controllo sull’operato degli istituti di credito (in pratica le banche controllano se stesse). Il secondo le viene attribuito dallo Stato, che le concede il diritto esclusivo di stampare banconote, poi cedute al governo in cambio dei titoli di debito pubblico (bot, cct, ctz, ecc.). Queste “cambiali” sono a loro volta piazzate dalle banche sui mercati finanziari internazionali a tassi stabiliti dagli stessi mercati.
In pratica l’entità del debito pubblico, da cui deriva la politica finanziaria di una nazione, non la decidono i governi, bensì gli onnipotenti mercati. Ossia una dozzina di banche e società finanziarie che attraverso potentissimi software, con un clic del loro mouse fanno crollare intere economie al solo scopo di incrementare a dismisura i loro guadagni e preparare il terreno per il successivo indebitamento degli stati. E rattrista assistere al timore reverenziale espresso nei loro confronti dai nostri politici ed economisti. Allo Stato rimane la proprietà delle sole monete metalliche coniate dalla Zecca, senza interessi e costi aggiuntivi, che valgono però solo il 2% della massa monetaria circolante.
Il meccanismo in sintesi è questo: la Banca d’Italia, che in questo caso si comporta come una semplice tipografia, stampa una banconota, ad esempio da 500 euro, il cui costo di produzione è di circa 30 centesimi tra filigrana e inchiostro e la cede alla Stato non, come logica vorrebbe, al costo di produzione maggiorato del suo guadagno, bensì al suo valore nominale: 500 euro. È come se il tipografo, al quale è stata commissionata la stampa dei biglietti d’ingresso di un cinema, si facesse pagare l’importo scritto sul biglietto. Non è finita: questo foglietto di carta colorata non viene venduto allo Stato, seppur ad un prezzo assurdo, bensì dato in affitto e, cosa ancora più scandalosa, senza alcun possibilità di riscatto.
Lo Stato per tutta la sua esistenza pagherà alle banche private gli interessi su delle banconote che in teoria gli dovrebbero appartenere. Un gran bell’affare, con c’è che dire… Analizzando i dati Istat del periodo 1990-2008, si può notare come il debito pubblico, per effetto dell’anatocismo (interessi sugli interessi), è costituito nella sua totalità da interessi (96,5%). Se lo Stato si riappropriasse del diritto di stampare moneta l’Italia non avrebbe debiti e le risorse rese disponibili sarebbero impiegate esclusivamente per il benessere del popolo italiano.
Gianfredo Ruggiero – presidente del Circolo culturale Excalibur di Varese
(LucidaMente, anno VIII, n. 85, gennaio 2013)