Il “caso” di Piergiorgio Welby rende urgentissima una seria legislazione specifica sull’eutanasia
Si riapre anche in Italia, stavolta a tutto campo, il dibattito sull’eutanasia. È stato Piergiorgio Welby, condannato a morte da una malattia progressiva, totalmente invalidante e inesorabilmente letale, a farlo riaprire per tutti noi. Piergiorgio, immobile e silenzioso nel suo letto di dolore, ha fatto conoscere all’Italia intera la propria indiscutibile volontà di rinunciare all’uso del respiratore artificiale, l’unico strumento che lo teneva in vita. Mettendo fine così alla propria lunga sofferenza.
Tra pietà e diritto – Welby, però, prima di morire ha fatto della sua estrema volontà un “testamento pubblico”, che merita da parte nostra, oltre che grande rispetto, un sentito ringraziamento, per aver risvegliato nelle coscienze di tutti la necessità di affrontare il problema dell’autodeterminazione dei malati terminali. Il dibattito non è, e non sarà, mai semplice, poiché coinvolge i sentimenti più profondi di ciascuno: il coraggio di Welby non merita, del resto, né superficialità, né indifferenza, né facili estremismi. Alla maggior parte dell'”umana gente” le posizioni intrise di elementi ideologici non interessano, poiché nulla hanno a che vedere con la sofferenza, il dolore, la pietà e, soprattutto, con il diritto di ogni malato terminale di decidere, se, quando e come mettere fine alla propria vita. Naturalmente, come sempre accade in questo paese, sono arrivate subito le dichiarazioni avverse a ogni forma di “morte dolce” da alcuni personaggi politici e dal Vaticano, che si è dimostrato tanto contrariato da rifiutare persino i funerali religiosi a Piergiorgio, evidenziando ancora una volta la propria mancanza di pietas e di rispetto per la sofferenza umana.
Domande senza risposte – È a questo punto che una domanda sorge prepotente: perché la Santa Sede ha rifiutato i funerali religiosi a Welby, quando, invece, i rappresentanti di altre chiese cristiane – e anche alcuni religiosi cattolici – ne hanno onorato la memoria, mettendo a disposizione le proprie strutture per celebrare il rito funebre (ci riferiamo alle chiese battista, ortodossa e valdese, a Dom Giovanni Franzoni delle comunità di base, a sacerdoti come don Luigi Ciotti e don Vitaliano Della Sala)? E perché la gerarchia ecclesiastica si ostina a contrastare il ripudio del cosiddetto “accanimento terapeutico”? Sono domande che non sembrano avere risposte sensate. Vorremmo ricordare, in tal senso, che invece è stata rispettata la volontà di papa Giovanni Paolo II, il quale, alla fine della sua malattia, ha chiesto di non essere più ricoverato in ospedale, rifiutando, pertanto, quelle “inutili cure” che avrebbero soltanto prolungato la sua agonia, forse per qualche giorno o qualche settimana. E, dunque, questa stessa scelta non dovrebbe essere consentita a tutti?
Evitare il dolore inutile – Un altro interrogativo che ci poniamo è il seguente: perché, nell’era della clonazione e della manipolazione genetica o della chirurgia che può cambiare l’identità delle persone, si continua a fare appello alla deontologia medica solo quando si tratta di provvedere a un malato terminale, che soffre senza speranza e chiede un ultimo, definitivo “trattamento terapeutico”? Forse perché non è fonte di lucro? Infine, ci domandiamo ancora: quale sarà la posizione della classe politica italiana che dovrà – speriamo presto – legiferare su questo tema? Ci auguriamo che, come viene auspicato da più parti (vedi gli interventi del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e del cardinale Carlo Maria Martini), venga quantomeno introdotto e reso legale ed eseguibile a tutti gli effetti il “testamento biologico”, affinché si possa attuare la volontà di ciascuno di morire senza dolore, permettendo al paziente di interrompere per sua stessa decisione una straziante, quanto inutile, sofferenza.
Un caso speciale – Vorremmo, comunque, non dimenticare i casi in cui una grave infermità determina una sofferenza psicologica così profonda e insormontabile da spingere la persona a desiderare la morte, perché non ha più una ragione per vivere. Ricordiamo, quindi, la vicenda di Ramon Sampedro, un cittadino spagnolo diventato tetraplegico a ventisei anni, il quale intraprese nel 1993 una lunga battaglia per ottenere il diritto a una “morte dolce”. Dopo essere rimasto per più di vent’anni paralizzato dal collo in giù, egli riuscì infine a suicidarsi nel gennaio 1998, grazie all’intervento dell’Associazione spagnola per il diritto a morire degnamente: diverse persone collaborarono al suo suicidio, ma nessuna ne fu direttamente responsabile, come è stato descritto nel bel film di Alejandro Amenábar Mare dentro, ispirato alla vicenda di Sampedro (il film è stato recensito da Giuseppe Licandro nell’articolo Come il cinema mostra i “disabili”, apparso sul n. 10 di LucidaMente). Dal messaggio registrato da Ramon qualche istante prima di bere il cianuro – il cui testo è disponibile nel saggio In prima persona: testimonianze, in Micromega, n. 1, 2007 – citiamo l’ultima frase, che condividiamo totalmente: «Signori giudici, autorità politiche e religiose, la mia coscienza non è intrappolata nella deformità del mio corpo atrofizzato e insensibile, ma nella deformità, atrofia e insensibilità delle vostre coscienze».
L’immagine: il commosso omaggio a Welby da parte dei tifosi romanisti.
Mariella Arcudi
(LucidaMente, anno II, n. 18, giugno 2007)
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