Da Petronilla a Barbarella e Valentina: come si sono evolute le figure femminili nel fumetto
All’inizio c’è stato lui, Yellow Kid (Yellow Kid di Richard Felton Outcault, 1896), il ragazzino dal camicione giallo che scorazzava per gli slum di New York. Da qualche sua costola furono forgiate innumerevoli “eve” di carta, che interpretarono forzatamente quei medesimi ruoli nei quali i vari modelli sociali avevano relegato la donna.
La società americana, esteriormente virile, ma, in verità, profondamente matriarcale, libera le ossessioni di una propria parte sociale, quella delle minoranze etniche oramai prossime alla completa integrazione, costruendo (già nel 1913) la figura parossistica di Petronilla (Arcibaldo e Petronilla – Jiggs e Maggie di George McManus), che con le sue smanie da arrampicatrice sociale complica l’esistenza del povero Arcibaldo, sempliciotto e senza ambizioni. La trasposizione fumettistica del matriarcato americano la troviamo ancora più evidente in Li’l Abner (1935, di Al Capp), ove le avventure fumettistiche sono dominate dalla dispotica capofamiglia (Ma’ Yokum), ma anche dalla bellissima e statuaria Daisy Mae, eterna fidanzata del protagonista. Di una visione ironica e tutto sommato rassicurante della famiglia americana della middle class, si fa interpreta Blondie (Blondie and Dagwood, di Murat “Chic” Young, 1930), all’inizio svampita, ma, con il passare delle strisce, attenta esegeta del ruolo femminile nella famiglia statunitense, nonché equilibratrice del vaporoso Dagoberto (Dagwood).
Rimangono invece sullo sfondo di uno scenario in cui domina l’intraprendenza eroica e virile della figura maschile, le immancabili “fidanzate” dei primi eroi avventurosi, che mietono copiosi successi negli anni Trenta del secolo scorso. Parliamo di Dale Arden (Flash Gordon), Diana Palmesi (l’Uomo Mascherato), Narda (Mandrake). Appiccicose, gelose e dotate di un’innata capacità di invischiarsi in guai colossali, le poverine vivono solo in funzione dell’eroe di turno. E il fumetto di quegli anni, seppure generalmente si agganci a una visione della società tradizionale incardinata sulla famiglia, tuttavia non si esime dal dare spazio ad altre figure femminili legate a un immaginario implicitamente trasgressivo. Come nel caso delle più o meno perfide rivali di Dale, cui Alex Raymond, il creatore di Flash Gordon, regala un erotismo corruttore, che fa sprigionare dalle movenze da top model, ma anche dalle generose porzioni di corpo nudo valorizzato piuttosto che nascosto da esotici costumi. Ma nulla è più trasgressivo del mondo dello spettacolo e, in questo contesto, ecco Betty Boop (di Max Fleischer, 1931), la figlia, un po’ tardiva, dei ruggenti anni Venti, che occhieggia seducendo il lettore con i suoi enormi occhi di vamp di carta.
Espressione del fumetto britannico, che modula un certo erotismo con la disciplina dalla mentalità vittoriana, sono le figure femminili di Jane (di Norman Pett, 1931), Tiffany Jones (di Pat Tourret e Jenny Butterworth, 1964), Modesty Blaise (di Jim Holdaway e Peter O’ Donnell, 1962), e tutte le donnine di Romeo Brown (Alfred Mazure, 1954). Eroine formose (Jane) o elfiche (Tiffany Jones), tutte quante bellissime, ma tutte rigidamente legate a una morale perbenista che consente loro poche effettive trasgressioni, le quali si limitano all’esibizione di abbondanti porzioni di corpo nudo, rigidamente incorniciato dall’evocativo immaginario erotico del tempo, formato da calza-mutandina-giarrettiera.
Negli anni Sessanta arriva una rivalutazione, anche da parte maschile, della specificità della donna, della sua personalità e delle proprie potenzialità. Alcuni autori restituiscono alla donna il potere sul proprio corpo, comprensivo di tutte le sue valenze erotiche. Il corpo della donna si trasforma da oggetto dell’universo maschile a soggetto attivo con diritto di conquistare anche il piacere sessuale che, sino a quel momento, era stato considerato in collisione con l’idea di morale. E siamo giunti così a Barbarella (Jean Claude Forest, 1962), l’eroina spaziale che consapevolmente si serve del proprio corpo per raggiungere il piacere, non disdegnando rapporti sessuali neanche con un robot, e a Valentina (Guido Crepax, 1965), che, attraverso i suoi incubi psicoanalitici, esprime anche la sostanziale inadeguatezza dell’essere umano di fronte a un repentino mutamento di prospettive sociali e morali. Queste due ultime eroine possono simboleggiare una evidente cerniera che apre il mondo del fumetto a una diversa rappresentazione della figura femminile, non necessariamente edificante quanto lo è stata sino a quel momento. E che, magari, visiteremo con più attenzione in un prossimo articolo.
Antonio Tripodi
(LucidaMente, anno VII, n. 79, luglio 2012)
Molto bello e intrigante