Quattro racconti agrodolci nel nuovo libro di Francesco Cento: “Deserto sulla terra” (Città del Sole Edizioni)
I monumenti, lo sappiamo, sono, alla lettera, ammonimenti, ricordi a futura memoria. Lo sa bene anche Francesco Cento, che di primo mestiere è scultore e che ha anche realizzato opere celebrative in pubbliche piazze. Ma a volte il monito rischia di significare qualcosa a rovescio, di contraddire le (buone) intenzioni.
È quello che accade in uno dei quattro racconti del suo nuovo libro: Deserto sulla terra. Echi e Racconti della Grande Guerra (Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria, 2013, pp. 120, € 12,00). Il racconto in questione è Le aquile di gesso ed è la storia di un monumento ai caduti della prima guerra mondiale innalzato in un paesino della Calabria, uno dei mille e mille monumenti che sono sparsi nella penisola. Si vorrebbero celebrare, con spirito grato, i caduti, i mutilati, insomma chi si è sacrificato pro patria. Ma il meccanismo celebrativo s’inceppa: c’è il reduce impazzito che disturba la cerimonia, c’è la simbologia ambigua se non maldestra (quell’aquila asburgica…), la pesante strumentalizzazione dei fascisti ormai al potere, la miseria dei contadini che fa a pugni con la retorica (pane, vogliono, non pietre). Il racconto è costruito con una sofisticata tecnica a incastro e flashback: si parte dal 1928 e si finisce con la cronaca di un violento scontro nel paesino tra carabinieri e donne del popolo nei mesi più duri della guerra. Come a dire: ognuno sappia di che lacrime gronda e di che sangue quel piccolo monumento. Gli episodi, solo lievemente romanzati, sono tutti veri.
Questo non sorprende il lettore degli scritti di Cento: il quale lavora sempre sulla realtà, con echi stilistici che rimandano al neorealismo, se non addirittura al verismo. Non per questo il libro si chiude in una prospettiva bozzettistica o provinciale. E benché l’ambientazione guerresca sia ovviamente spietata, non manca l’ironia: come nel primo racconto, che dà il titolo al libro, Deserto sulla terra (citazione dal Trovatore verdiano: «Deserto sulla terra / col rio destino in guerra / è sola speme un cor…»). La voce del cuore e dell’arte dovrebbe unire i nemici acerrimi, che attraverso le trincee parlano in musica: càpita infatti che il soldato austriaco Ludwig Wolf von Wunderer (nome parlante: “un portento”) preferisca esercitare l’ugola con Verdi piuttosto che con Wagner (meno cantabile, ammettiamolo…). Ma, in maniera simile al famoso episodio di Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque, quel vezzo estetico gli costa la vita. E dunque l’ironia, anche qui, stinge nell’amaro.
Cento è un incallito melomane: e sa benissimo come l’Opera, in circostanze di solito per fortuna meno drammatiche, ha sempre legato le culture italiana e austro-tedesca, in un groviglio di passioni, emulazioni, rivalità. Il terzo racconto, La nuova vita (Algeri! Algeri!), risale a precise memorie familiari: narra l’epopea dei reduci calabresi della Grande Guerra costretti a emigrare, addirittura in Algeria come Tartarin de Tarascon, il fascismo non avendo offerto loro che un’illusoria retorica irrancidita. Neve 1916 rievoca l’avventura di ragazzini calabresi, anzi quasi bambini, che l’esercito italiano impiegava come personale ausiliario nelle retrovie, in particolare addetti alla manutenzione delle ferrovie. È una favola di Natale quasi dickensiana, a lieto fine: una sortita nella notte del piccolo Mico per procurarsi del vino, il suo smarrirsi nella tormenta e poi il faticoso ritorno a casa, ovvero nella baracca che dovrebbe restituire un po’ del calore domestico. «Tra amore e morte»: sono significativamente le ultime parole del racconto e del libro. Non una congiunzione fastosa – romantica o dannunziana – ma un’efficacissima sintesi dell’anello che stringe e costringe chiunque sia finito nell’ingranaggio crudele delle guerre.
Le immagini: la copertina del libro e il suo autore.
Franco Arato
(LucidaMente, anno VIII, n. 86, febbraio 2013)