Il mondo contemporaneo non ricerca la bellezza, ma lo scandaloso e il “messaggio”. Prendendo spunto dagli esempi riportati da Angelo Crespi in “100 anni di arte immonda”, edito da “il Giornale”…
«La tristezza di una civiltà che ha rinunciato alla Bellezza e alla sua proposta ordinatrice, a quei valori da sempre sottesi al fare arte, e in nome di cosa non si sa bene».
Questa è una delle sconsolate considerazioni contenute nel pamphlet 100 anni di arte immonda. Dall’orinatoio di Duchamp alla merda di Manzoni: come il politically correct ci obbliga ad adorare il brutto (il Giornale, collana fuori dal coro, pp. 50, € 2,50) dell’articolista e scrittore Angelo Crespi. La rinuncia dell’estetica si accompagna alla sottomissione dell’arte contemporanea alla teoria (i concetti espressi, il celebre “messaggio”, sono più importanti del risultato raggiunto), alla politica, alla ricerca dello scandalo a tutti i costi, alla bruttezza: «Un’arte che esiste solo se supportata da una buona teoria, cioè da parole quanto più magniloquenti possibili che ne restituiscano il senso a un pubblico attonito».
Il quale, «pur non capendo finge di capire, per timore di non esser ammesso al consesso degli intelligenti» sicché «si mette in fila in religioso silenzio per osannare chi lo sbeffeggia». Nei fatti «la società contemporanea non chiede più all’artista l’espressione della bellezza, semmai gli affida […] il superomistico compito di mettere in discussione i valori costituiti e portare il confine dell’umano un poco più avanti in terre ancora inesplorate». Tutto è dominato «da una completa anestesia dei sensi, da una totale indifferenza visiva, dal desiderio di azzerare l’arte sia sul versante della capacità dell’artista di produrla, sia sul versante dello spettatore di goderla». L’obiettivo pare essere quello di «azzerare il desiderio di bellezza e senso che alberga in ogni uomo». L’importante è che l’opera sia “d’avanguardia”.
Secondo alcuni studiosi, la civiltà (e la stessa crescita armoniosa degli individui) «coinciderebbero con l’allontanamento dalle proprie feci», dai propri escrementi. Allora, ecco che alcuni capolavori del Novecento rappresentano “piscio e merda”, organi genitali o giù di lì. Vogliamo vederne qualche celebre esempio? Con l’aiuto di Crespi, scegliamo sette “capolavori”, in stretto ordine cronologico. Uno. Tutto (forse) ha inizio il 10 aprile 1917, a New York, presso la mostra curata dalla Society of independent artists, tenuta nelle sale del Grand central palace sulla Lexington avenue. Il francese Marcel Duchamp prende un ready-made (oggetto già pronto) e, con gesto Dada, lo battezza opera d’arte da esporre. Qual è questo oggetto? Un orinatoio di porcellana bianca (Fontana).
Nella stessa esposizione, ecco un altro “capolavoro”. Due. Constantin Brâncuși con «il Portrait of Princess Bonaparte, altresì nomato Princess X, un bronzo specchiante falliforme che avrebbe suscitato somma riprovazione qualche anno dopo, nel 1920, a Parigi al Salon des Indépendants, e che nelle intenzioni dello scultore romeno rappresenterebbe l’essenza della femminilità, ed invece, più modestamente, sembra proprio un pene in procinto di erigersi». Voliamo al 1961. Tre. Il genio italico non può mancare. E la fa grossa. Pietro Manzoni è un artista lombardo, lontano parente del povero Alessandro, che dal proprio sepolcro se ne vergognerà.
Infatti, in occasione di una mostra presso la Galleria Pescetto di Albisola Marina, presenta per la prima volta in pubblico 90 scatolette (rigorosamente numerate) di Merda d’artista con la dicitura «contenuto netto gr. 30, conservata al naturale, prodotta ed inscatolata nel maggio 1961»). Il suo prezzo? Il valore dell’oro! 1967. Quattro. L’artista concettuale statunitense Joseph Kosuth ingrandisce fotograficamente i caratteri della voce water dal vocabolario. E l’arte è fatta! Ovviamente, perché non arrivare alla blasfemia? Perché non offendere chi, in nome del diritto alla libera espressione e della trasgressione artistica, se ne dovrà stare zitto e muto, se non vuol rischiare di essere deriso quale reazionario, ignorante e bigotto?
L’importante è che si offenda la religione cristiana. Troppo pericoloso toccare quella islamica! Cinque. 1987. Il fotografo statunitense Andres Serrano crea Piss Christ (“Cristo di piscio”): un piccolo crocefisso di plastica in un bicchiere di vetro immerso nell’urina dell’autore. Sei. Anni Duemila. Il belga Wim Delvoye produce macchine (Cloaca) di varia grandezza in grado di produrre escrementi. Torniamo ai pronipoti di Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Sette. Siamo arrivati al capolinea, proprio nei nostri anni. Settembre 2016. America è il titolo del water d’oro che Maurizio Cattelan produce per il Guggenheim di New York. Eravamo partiti dalla metropoli statunitense. E vi torniamo per terminare il nostro viaggio.
Che peraltro, avremmo potuto continuare con molti altri artisti degli anni Dieci del nostro secolo. Quali l’anglo-nigeriano Chris Ofili, che nel 1996 ha elaborato un’icona della Vergine Maria mediante immagini pornografiche e sterco d’elefante (nel 2015 battuta all’asta da Christie’s per 2,9 milioni di dollari!). Lo statunitense Paul McCarthy, che nel 2010 ha esposto alla Biennale di scultura di Carrara «una cagata in travertino» di 15 tonnellate. Lo scultore cinese Zhu Cheng, che, sempre nel 2010, ha realizzato interamente con escrementi di panda una copia della celebre Venere di Milo. Posta sotto vetro, è stata venduta a un collezionista svizzero per 45.113 sterline, circa 53.400 euro. Il californiano Mike Bouchet (vedi Se a Zurigo 80 tonnellate di feci umane diventano una nuova espressione di arte contemporanea). Ma di certo altri escrementi verranno fuori nei prossimi anni…
Le immagini: in “ordine di apparizione”, le opere delle quali abbiamo parlato, esempio di arte immonda.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XII, n. 141, settembre 2017)
Difficile, caro Rino, anzi difficilissimo risalire la china, uscire dall’abisso in cui siamo precipitati. Condivido in toto e totum! Questa Luce non deve essere posta sotto il moggio, dobbiamo salire sui tetti, lucidamente e coraggiosamente! Saluti da Roma. Salvatore