“Visitare Salvador de Bahia, conoscere le sue bellezze e i suoi misteri, è vivere un’esperienza di affascinanti scoperte e indescrivibili emozioni. A volte le parole non sono sufficienti per descrivere tutto l’incanto e l’atmosfera magica che avvolge questa città che è del popolo, dei santi e degli orixas. Chi ha già sperimentato un po’ del sapore di Bahia sa che è impossibile resistere ai piaceri che la città offre ai suoi visitatori. La vegetazione tropicale in tutto il suo splendore, la cultura ricca di manifestazioni popolari, la storia piena di avventure e eroismo” (da www.bahiallegria.com/salvador.php).
“I capi e gli eroi sono vuoti, sciocchi, prepotenti, odiosi e malefici. Mentono quando si dicono interpreti del popolo e pretendono di parlare a suo nome, poiché la bandiera che impugnano è quella della morte, per sopravvivere hanno bisogno dell’oppressione e della violenza. Quale che sia la posizione che assumono, il sistema di governo o il tipo di società, il capo e l’eroe esigeranno obbedienza e culto”.
(da Jorge Amado, O menino grapiúna)
Cosa è Salvador de Bahia?
Questa è Salvador de Bahia. Per lo meno secondo le migliaia di turisti che la visitano e la raccontano. Secondo gli innumerevoli depliant informativi delle agenzie viaggio. Secondo i poeti e i cantori di questa città secolare. Non si può certo biasimarli! Chiunque metta piede in questa favolosa città non può che provare le stesse sensazioni. Questa è Salvador de Bahia, o semplicemente Bahia per i bahiani. Ecco, per i bahiani. Cosa è Bahia per i “brasiliani più brasiliani di tutti”?
Abbiamo trascorso alcuni giorni con loro. Ma non quelli del Pelourinho, di Barra, di Itapua o di Rio Vermelho. Con i favelados, i veri bahiani. Sicuramente quelli più autentici e soprattutto i più numerosi. Per l’esattezza con gli Alagados, i più poveri di tutti. Quelli che vivono nelle favelas, ma non in favelas normali, ma nelle peggiori. Quelli che “vivono” (forse ora si può cominciare a dire vivevano) in palafitte, completamente Allagati. Perché una favela è brutta, sporca, piccola, fragile, stretta, umida. Ma una palafitta è peggio. Vivere su un pezzo di legno poggiato su quattro pali conficcati nel mare è sicuramente peggio! Ché, se c’è bassa marea vivi sulle lame, se c’è alta marea vivi in acqua.
Oggi, dopo quindici anni di lavoro, gli Alagados sono sulla terra ferma, sempre in favelas, in baracche, ma sulla terra ferma. E lì, dove vivevano loro, ora c’è un’immensa distesa di fango, un’intera baia che dopo decenni è tornata a vivere, dopo una lunga ed estenuante battaglia, di cui, però, conserva intatte le ferite insanabili, coperte dai passi della gente che, ignara o consapevole, ci cammina sopra, come se fosse Copacabana.
I Novos Alagados
Tutto ha inizio nei primi anni Novanta, quando il Cardinale di Salvador Bahia, Moreira Neves, impressionato dalle disumane condizioni di vita degli abitanti della favela di Novos Alagados, chiede aiuto ad Avsi (Associazione dei volontari per il servizio internazionale), una organizzazione non governativa italiana.
Così un gruppo di giovani volontari ha iniziato un’azione “caritativa” con i bambini di strada che non avevano possibilità di essere accolti negli asili. Nel 1993 è stato costruito l’asilo Papa Giovanni Paolo II, poi nel 1999 un centro educativo per ragazzi in età scolastica e un centro di educazione professionale. Fino alla costruzione, nel 2004, del centro di orientamento familiare. Chi ci lavora ci spiega come è importante per i bambini e per i ragazzi essere seguiti in ogni momento della loro vita, così come è necessario che anche le loro famiglie vengano aiutate nel loro ruolo educativo.
Paola è lì da cinque anni e con molta soddisfazione ci mostra il lavoro fatto fino ad ora: “Quando siamo arrivati la popolazione viveva in condizioni di miseria estrema, su palafitte di legno, in un’acqua estremamente inquinata, in assoluta precarietà fisica, ambientale, sanitaria e sociale, in una delle baie che un tempo erano conosciute per la loro bellezza”. Poi aggiunge: “La degradazione e la povertà devono essere combattute prima di tutto qui, con la scuola, con l’educazione alla vita, al lavoro, alla famiglia”.
Negli anni successivi l’Avsi ha accompagnato ad un lavoro educativo l’immenso progetto di sviluppo urbano promuovendo la bonifica della baia e la sostituzione delle palafitte con case nuove, grazie al supporto economico del Ministero degli Esteri italiano e della Banca Mondiale.
Tuttavia, ancora oggi c’è qualcuno che vive sui pali. Sono pochi ormai, solo i più affezionati, o i più sfortunati, a seconda dei punti di vista. Ma quindici anni fa non era così. Allora, in quel fazzoletto d’oceano, c’erano 15mila persone. E tra loro c’era e c’è José Eduardo Ferreira Santos, Dinho per i brasiliani. Anche lui un Alagado. Anche lui uno di quelli con casa in parquet con vista mare. Anche lui uno di quelli che un giorno si mangiava e l’altro si piangeva. Uno di quelli che “probabilmente da grande per sopravvivere dovrai spacciare, rubare, sparare, uccidere, e forse essere ucciso”. Così facevano gli altri, così hanno fatto gli altri, così fanno gli altri.
Ma non Dinho. Lui è stato fortunato, come ripete sempre. Ha incontrato un angelo, o forse due, o forse di più. Sta di fatto che ora, a 32 anni, insegna Pedagogia all’università, tiene conferenze in tutto il mondo e rappresenta il riscatto di un’intera generazione. Vivere con lui, nella sua favela, anche solo per pochi giorni, lascia una sensazione profonda di amore, di stima e di riconoscenza verso una persona e un popolo da cui si può solo imparare.
Imparare a vivere.
Quando vince la volontà
Dinho è spaventosamente gentile e disponibile, fino a imbarazzare. Ride sempre, come se fosse una regola di vita. Qualunque cosa gli si chieda risponde sempre allo stesso modo: “Prontu!”, con un italiano un po’ verdeoro. Così di giorno ci porta in giro per la città, di sera a casa dei suoi amici, anche loro oltremodo ospitali, e nel frattempo ci racconta la propria storia, la propria vita.
“Ho visto tanti bambini che cadevano in acqua dalle palafitte e poi morivano fulminati dai fili della corrente”. Ora non ride più. “Oggi si muore ancora, magari per altri motivi”. Pochi giorni fa un suo amico è morto punto da una zanzara. E poi la violenza. Tanta violenza. La notte il rumore della pistola ti accompagna. A volte vuol dire che è arrivato qualcosa, magari droga. Altre volte no. Vuol dire semplicemente che qualcuno ha sparato.
Dinho parla del Brasile, di Bahia, degli Alagados. Poi di lui stesso: “Qualcuno mi ha protetto e continua a proteggermi. Dio ha voluto tutto questo, non è merito mio”. Lo ripete sempre, lo dicono un po’ tutti qui. Il destino, o meglio la Provvidenza. Dipende tutto da loro. Secondo lui, anche noi siamo lì per un motivo: “Qualcuno ha voluto che mi incontraste”. Ascoltandolo con attenzione, però, si intravede la consapevolezza che a volte basta scegliere e le cose possono andare meglio. Quando si occupa dei bambini lo fa consapevole di tutto questo: “L’essere umano, di fronte a una proposta di bellezza e di bene, anche se immerso nell’esperienza della violenza, dell’emarginazione, della precarietà, ne sente il fascino. La sfida è metterlo in condizione di potere fare la scelta”.
Forse Dinho è l’esempio vivente che non la fortuna, non il caso, non la Provvidenza, o per lo meno non solo, ma soprattutto la volontà ti rendono una persona migliore o peggiore.
A chi affidarsi?
Un mese in Brasile. Abbiamo visto tutto. Abbiamo ascoltato tanto.
La storia di una donna a cui avevano tagliato luce e acqua perché non aveva ceduto alle violenze. La storia di una moglie violentata dal marito e dai suoi “bravi” appena usciti dal carcere. La storia di una figlia che per dieci reais al giorno (4 euro) lavora dodici ore in pizzeria: “Così mi sento sicura – ammette la madre – Se rimane a casa la violentano”. La storia di due bambini, di due anni e di quattro mesi, trovati soli a casa, ammalati e denutriti. E di altre centinaia di bambini costretti a vivere nella fame, nella sporcizia, continuamente malati.
E poi abbiamo visto il lusso, la ricchezza, il turismo. Le spiagge affollate di brava gente che sorseggia una capirinha sotto l’ombrellone di un meraviglioso albergo a cinque stelle. I locali notturni pieni di turisti europei e di ragazze brasiliane.
Non sappiamo di chi sia la colpa, né sappiamo a chi rivolgersi, a chi affidarsi.
Sicuramente sappiamo che a qualcuno sta bene così.
L’immagine: l’immensa distesa di fango dove vivevano gli Alagados.
Simone Jacca
(LM MAGAZINE n. 7, 15 gennaio 2009, supplemento a LucidaMente, anno IV, n. 37, gennaio 2009)