Lo scorso 21 marzo la Commissione europea ha autorizzato con riserva la proposta di acquisto della Monsanto, colosso americano di ogm ed erbicidi, da parte della Bayer, gruppo multinazionale di prodotti chimici e farmaceutici. Il rompicapo di quote e azionisti e l’intreccio di interessi
L’iniziativa avanzata dalla Bayer nel settembre 2016 per l’acquisto della Monsanto, per circa 59 miliardi di euro, è stata accolta dall’Unione europea al termine di un’indagine iniziata ad agosto 2017. Forte era stata l’opposizione al progetto di fusione da parte di ambientalisti e associazioni di agricoltori. L’accordo tra le due multinazionali, autorizzato proprio il mese scorso, si farà e riguarderà un fatturato complessivo di oltre 23 miliardi di euro.
Il gruppo Bayer, pur avendo sede in Germania, a Leverkusen, difficilmente può essere considerato di proprietà soltanto tedesca. Tra i dieci più grossi azionisti dell’azienda ci sono infatti sette fondi pensione e di investimento americani, di cui quattro (The Vanguard Group, Inc.; BlackRock Fund Advisors; Massachusetts Financial Services; Fidelity Management & Research Company) figurano anche tra i primi dieci azionisti di Monsanto, in un intreccio di interessi tutto ancora da decifrare. La Bayer sembra di conseguenza una multinazionale ormai sottoposta a una fortissima influenza statunitense, con i sette colossi americani che detengono più dell’80% delle quote dei dieci azionisti principali e che posseggono come valore di mercato la cifra impressionante di oltre 11.000 miliardi di dollari, equivalente pressappoco al Pil annuale della Cina.
La decisione della commissaria europea alla concorrenza Margrethe Vestager ha seguito un cliché già sperimentato nelle due fusioni dell’agrobusiness autorizzate nel 2017 tra colossi mondiali della chimica (ChemChina-Syngenta e Dow Chemical-DuPont). All’inizio si valutano la concentrazione del mercato e le possibili alterazioni della concorrenza, poi si dà il via libera alle operazioni di compravendita o acquisizione. Anche stavolta il semaforo verde è scattato facendo ricorso allo stesso espediente utilizzato in occasione del precedente accorpamento, autorizzato con riserva il 27 marzo 2017, tra due multinazionali statunitensi produttrici di ogm, veri e propri mostri agrochimici, Dow Chemical e DuPont. In quel caso è bastata la cessione di una parte dell’attività dell’azienda acquirente a uno dei pochi operatori internazionali che si trovano nel mercato delle sementi.
Per guadagnare il via libera comunitario, il gruppo Bayer ha quindi stipulato a ottobre 2017 un accordo di vendita al primo gruppo mondiale della chimica Basf, anch’esso con sede legale in Germania. Per la somma di 5,9 miliardi di euro, la prima si è impegnata a trasferire alla seconda 1.800 dipendenti e a cederle i business delle sementi di cotone, colza e soia nelle macroaree di Nord America ed Europa. Parimenti si è impegnata a vendere a Basf i centri dislocati in Germania, Usa e Canada nei quali si produce il business del glufosinato ammonio, il principale sostituto nel mercato del glifosato, celebre quanto contestato erbicida(vedi Glifosato, l’Europa dice ancora sì al diserbante sospetto cancerogeno). Infine, le ha concesso una licenza sull’intero prodotto agricolo digitale globale e sui progetti in corso di sviluppo. Questo stratagemma della vendita delle attività Bayer e delle rassicurazioni sui servizi digitali rappresenta comunque un “pannicello caldo” per chi pensa che legittimare le fusioni tra le multinazionali dell’agrobusiness sia un ulteriore passo nella direzione sbagliata. Anche immaginando che il compromesso possa funzionare per difendere un minimo di concorrenza nel mercato agrochimico e digitale, dalla comparazione dei dieci principali azionisti delle due compagnie non emergono aspetti che possano indurre all’ottimismo.
Infatti, è difficile che Basf e Bayer si facciano realmente concorrenza, avendo in comune ben sei azionisti: Norges Bank Investment Management; The Vanguard Group, Inc.; BlackRock Fund Advisors; BlackRock Asset Management Deutschland AG; State Street Global Advisors Ltd.; Deka Investment GmbH. Pur in presenza di monopoli ipercapitalizzati e rapaci, la tematica antitrust non pare sia assolutamente di attualità o perlomeno fatica a imporsi nel dibattito politico nazionale o per meglio dire transnazionale. Eppure, vi è la forte esigenza di lottare per rompere il cartello e la concentrazione dei poteri che le piovre del commercio agroalimentare hanno approntato su scala planetaria. Nelle ultime tre decadi il processo di concentrazione degli operatori nell’industria agroalimentare mondiale ha avuto una progressione davvero straordinaria, se si pensa che nel 1981 ad agire sul mercato mondiale erano più di settemila aziende sementiere.
Se anche dagli Usa nei prossimi mesi sarà dato il via libera alla creazione del nuovo supergigante, ciò produrrà una situazione davvero inquietante e impressionante per il cibo, che dovrebbe essere prodotto per la vita di tutti gli esseri umani e non per l’arricchimento di pochi predoni. Tre grandi player (Dow Chemical e DuPont, ChemChina-Syngenta e Bayer-Monsanto) saranno in condizione di controllare oltre la metà del mercato mondiale delle sementi e dei pesticidi. I decisori politici e i regolatori comunitari che hanno tollerato pilatescamente di demandare al mercato ogni decisione sulla forma che deve assumere la filiera agricola e alimentare dovrebbero sempre ricordare il cinico ammonimento alla vocazione “imperiale” lanciato da Henry Kissinger: «Se controlli il petrolio, controlli le nazioni, se controlli gli alimenti, controlli i popoli». E cercare di fare qualcosa per impedire che esso si realizzi attraverso la straordinaria potenza delle multinazionali in vaste aree del pianeta.
Le immagini: il logo della Bayer, azienda tedesca chimica e farmaceutica, e quello della Monsanto, multinazionale statunitense di biotecnologie agrarie; una foto della commissaria europea alla concorrenza Margrethe Vestager.
Ugo Pietro Paolo Petroni
(LucidaMente, anno XIII, n. 148, aprile 2018)