Riflessioni, spunti e riferimenti: le coordinate culturali, da Egesia di Cirene all’“effetto Werther”, per affrontare un argomento delicato che è già tormentone
Parlare di teenager che si suicidano non è affatto facile. Un attacco diretto rischia di orientare tutto l’articolo verso una riflessione priva di tatto e sensibilità. Se, invece, si prosegue con la pretesa di anteporre l’autocompiacimento stilistico alla gravità dei contenuti, ci si immette in una discesa sempre più ripida che non porta a niente di buono. E se, infine, si prova a titillare la brama di cinismo del lettore, con l’intento perverso di far affiorare un timido ghigno sulla sua bocca, si sta raschiando il fondo già da un pezzo. L’articolista ha “toppato” ed è bene ricominciare da capo.
L’argomento è stato portato alla ribalta da un servizio de Le Iene dal titolo abbastanza eloquente, Blue whale: suicidarsi per gioco. Quello che emerge dai 31 minuti della ricostruzione di Matteo Viviani è che si sta diffondendo – come una moda – una sorta di sfida a tappe che si conclude con la morte dei partecipanti. Il giocatore è accompagnato nel suo percorso da un curatore che gli ordina di compiere azioni sempre più macabre e cruente: incidersi la sagoma di una balena sul braccio, guardare snuff movie o affacciarsi in piena notte dal decimo piano di un palazzo. La vittima, giovane e quindi troppo docile e troppo facilmente influenzabile, non riesce a ribellarsi al volere del suo aguzzino. Una volta cominciato il percorso, il “giocatore” non può più smettere – proprio come con la droga – e continua finché non finisce male. E proprio come con la droga, dopo aver visto il servizio, a me è venuta voglia di provare. Naturalmente, non sto per raccontarvi la mia esperienza con il Blue whale game: uno, perché non l’ho fatto; due, perché questa non è un’inchiesta della rivista Vice.
Diffusa ad ampissimo raggio, la notizia del gioco suicida ha imboccato quello che ormai sembra il corso naturale dell’informazione: sono arrivati l’approfondimento melodrammatico sul cattivo Philipp Budeikin (il 21 enne russo ideatore del Blue whale, ndr), ventunenne in fuga dalla facoltà di Psicologia, e la smentita con tanto di analisi ponderata e articolata (questa sembra la più agguerrita). Poi, la deriva dietrologica, con l’ipotesi della notizia gonfiata dal governo russo per boicottare la circolazione del libero pensiero e l’uso di VKontakte, la risposta putiniana a Facebook, e la deviazione “memologica”, puntuale come la pioggia acida nella Manchester di fine Ottocento.
Il fatto che un argomento del genere sia rimbalzato su tante testate e raccontato da ogni tipo di prospettiva possibile non è esattamente un freno per ciò che è stato definito “effetto Werther”. Il termine è stato coniato dal sociologo David Phillips per descrivere l’incremento dei suicidi in seguito alla pubblicazione del romanzo I dolori del giovane Werther (1774)di Johann Wolfgang Goethe. Si tratta di una sorta di volontà latente che può risvegliarsi improvvisamente. Essasi rinvigorisce trangugiando tutto il male fermentato nel confronto con la realtà e infine prende il sopravvento. È più o meno quanto successo dopo il suicidio di Marilyn Monroe nel 1962. Con lei moriva nel peggiore dei modi la rappresentazione più fulgida della cultura americana del dopoguerra, trascinando con sé tutte le donne che avevano fatto dell’immedesimazione in quel modello un motivo per andare avanti.
Con meccanismi ovviamente diversi, ma con i medesimi tragici risultati, terminavano le vite dei seguaci di Egesia di Cirene, filosofo sostenitore di un edonismo negativo che riconosceva nella morte la liberazione dall’impossibilità di raggiungere il piacere. Non a caso, passò alla storia col soprannome da lottatore di wrestling “persuasore di morte”. Tra Egesia e Marilyn – come si potrà notare – c’è un abisso: tra i due passano civiltà, invasioni barbariche, umanesimi e limonate da portare al marito in giardino. Ma il desiderio di cercare sollievo e risposte nel trapasso è la costante sulla quale, superato il timore reverenziale, si dovrebbe ragionare.
A raccontare la follia del suicidio che fa tendenza è, nel film Suicide Club, il regista giapponese Sion Sono. A lanciare la moda sono i liceali: intere scolaresche salgono sul tetto della scuola, si prendono per mano, recitano i medesimi versi e poi si lanciano nel vuoto. Lo fanno col sorriso sulle labbra, come se non riuscissero a contenere la gioia di essere diventati parte di qualcosa. Un qualcosa che è la più rivoluzionaria delle dichiarazioni d’indipendenza verso chi li educa. L’ondata di suicidi travolge tutto il Paese, chiunque è messo in guardia ma nessuno ne è immune. Attorno all’avvenimento si va costruendo una rete comune socioculturale e mediatica: i giornali pubblicano sempre le stesse immagini, la tv passa sempre la stessa canzone della solita band di teen idol, i programmi didattici sono obsoleti e a tavola genitori e figli comunicano per monosillabi. C’è una sorta di pandemia onnipresente e il contagio può avvenire in tutti i modi perché il virus attacca su ogni fronte.
Per tenere testa a un simile bombardamento sulla psiche è necessaria quella che Umberto Eco definiva cultura enciclopedica: l’insieme di competenze utili a formare idee generali stratificate, in grado di decodificare i messaggi che il mondo ci invia. Un bagaglio di esperienze vitale per rapportarci con i mostri che abbiamo dentro e che ci tengono più o meno tutti in ostaggio. Un desiderio troppo umano come quello di morire è difficile dire come, o se, debba essere combattuto, ma è inevitabile prepararsi ad affrontarlo. La sfida, si sa, può arrivare da ogni parte: sia da un capolavoro come I dolori del giovane Werther, sia da un prodotto dell’industria dell’intrattenimento come un servizio de Le Iene.
Le immagini: la struttura acquatica Blue whale of Catoosa, in Oklahoma; il giornalista televisivo Matteo Viviani nella classica posa de Le Iene; la locandina del film Suicide Club del regista Sion Sono.
Orazio Francesco Lella
(LucidaMente, anno XII, n. 139, luglio 2017)