Tra creazione artistica ed estremi, commoventi messaggi umani: la personale interpretazione di Boltanski della strage aerea del 27 giugno 1980
Una visita al Museo per la Memoria di Ustica di Bologna (via di Saliceto 3/22, presso il Mambo, Museo d’Arte moderna) colpisce i visitatori nel profondo, costringendoli a relazionarsi con un avvenimento ancora da chiarire e difficile da accettare per la sua assurdità.
Ma il dolore e l’incredulità non sono gli unici sentimenti che si vivono all’interno di questo museo. L’allestimento curato dall’artista francese Christian Boltanski ci lascia una speranza: l’arte può salvare la memoria e donarle nuova forza. Inaugurato il 27 giugno 2007 per volere dell’Associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica, il museo ospita i resti del Dc9 Itavia che cadde al largo dell’isola di Ustica la sera del 27 giugno 1980. Il percorso della mostra si snoda attorno al relitto del velivolo, ricomposto con gli oltre 2.500 frammenti rinvenuti. Vedere questo gigante diviso in così tante piccole parti, all’apparenza sottili come fogli di carta, significa confrontarsi con la fragilità dell’esistenza.
È in questo spazio che si colloca il contributo artistico di Christian Boltanski. Intorno alla carcassa del Dc9 sono disposti in maniera ordinata, come una cornice, 81 specchi neri. Ottantuno come le vittime. Neri come il fumo e il buio della notte, ma anche come l’oscurità di un mistero mai svelato. Da ogni specchio proviene una voce diversa. Voci di bambini, adulti e anziani che pronunciano frasi semplici, espressione della vita di tutti i giorni. Vedersi riflessi in questi specchi parlanti è come un monito: ciascuno di noi sarebbe potuto essere una delle 81 vittime.
Accanto a quello che resta dell’aeroplano si trovano nove grandi scatole nere che contengono gli oggetti appartenuti ai passeggeri. L’artista ha scelto di non mostrarli al pubblico perché troppo intimi, troppo carichi di ricordi e significati che i visitatori non potrebbero comprendere. Possiamo vederli solo in foto, inventariati dallo stesso Boltanski, nell’opuscolo Lista degli oggetti personali appartenuti ai passeggeri del volo IH 870. Spazzole, scarpe, abiti, bambole, taccuini… Oggetti normali, il cui unico valore deriva dall’essere testimoni di una tragedia. L’ultimo dettaglio aggiunto dall’artista sono 81 lampadine che dal soffitto scendono a varie altezze a illuminare il velivolo Itavia. Si accendono e si spengono lentamente, insieme, in un respiro comune. Un segnale di silenziosa e ostinata resistenza.
Il tema del mistero della vita e della sua precarietà sono una costante nella visione artistica di Boltanski. Rappresentante della Francia alla Biennale di Venezia del 2011, egli è convinto che l’arte abbia il compito di porre domande, lasciando le risposte allo spettatore. Nato a Parigi nel 1944 da madre ucraina e padre ebreo, porta in sé il segno della Shoah e delle stragi gratuite del secondo conflitto mondiale. La sua è un’arte innovativa, che esce dagli schemi del déjà vu per cercare nuove forme di espressione. «Non c’è bisogno di vedere l’opera – ha dichiarato nel 2013 durante un’intervista – l’importante è sapere che esista». Da questo presupposto nascono le sue opere “auditive”, come l’orologio parlante della cattedrale di Strasburgo e il progetto Archives du coeur, il cui obiettivo è quello di riunire su un’isola giapponese le registrazioni dei battiti cardiaci dell’intera umanità.
Al centro della sua arte si trovano anche gli oggetti comuni della vita di tutti i giorni, nei quali lo spettatore può identificarsi e ritrovare una parte della propria vita. L’installazione Personnes del 2010 presso il Grand Palais di Parigi ne è un esempio. Un gigantesco cumulo di abiti e una gru che li sposta uno ad uno. Metafora della vita, del destino e della sua imprevedibilità. E l’allestimento del Museo per la Memoria di Ustica nel 2007 deve essere stato per l’artista una grande sfida, il cui risultato si può definire eccellente. In questo museo, arte e memoria si compenetrano, traendo forza l’una dall’altra, facendo insieme domande che ancora aspettano risposte. Anche i più convinti detrattori dell’arte contemporanea, che spesso la liquidano affermando che essa «non comunica niente», dopo una visita a questo museo dovranno ricredersi. Qui l’arte comunica, e ha 81 voci diverse.
Vittoria Colla
(LucidaMente, anno X, n. 114, giugno 2015)