La resistenza al nuovo – Nel tempo in cui scrivo, la capacità dell’uomo moderno di manipolare materia ed energia è veramente sorprendente, raffinatissime sono le tecnologie partorite dal suo pensiero scientifico. La loro penetrazione massiccia nella vita quotidiana ha consolidato l’abitudine ai prodotti e ai pensieri della scienza. L’abitudine purtroppo indebolisce il senso critico e si finisce per rimanere ancora legati alle medesime certezze di quando ci siamo chiesti l’ultima volta «perché?». Se nel frattempo le cognizioni scientifiche sono mutate, l’onestà intellettuale ci imporrebbe di cambiare opinione fino al punto da capovolgerla, se necessario. Spesso però, anche se in buona fede, anche se non ci mancano le capacità intellettive per comprendere il cambiamento, anche se sinceramente appassionati al problema, la resistenza alla nuova idea non viene vinta. Credo che i motivi profondi di questa resistenza siano di tipo caratteriale, emotivo, psicologico, sia individuale che collettivo, ma non intellettuale. Esiste in effetti anche un altro problema. È chiaro che quelli che credono che le malattie siano dovute alla sfortuna o a una punizione divina sono ormai pochi. Le malattie ora sono normalmente associate a virus, difetti genetici, errate abitudini, ecc., secondo uno schema di causa-effetto che ne spiega l’insorgenza e a volte ne consente la cura. L’atteggiamento scientifico odierno infatti rifiuta le magie, le leggende e le spiegazioni soprannaturali. D’altra parte, nei secoli o addirittura nei millenni precedenti non è che l’uomo fosse costituzionalmente più stupido o fuori di testa: semplicemente aveva una diversa idea di sé e dell’universo. Anche lui si faceva delle domande e cercava delle risposte. Ma se anche voi vi domandate perché vi viene l’influenza e però credete che ogni cosa dell’universo abbia un’anima è più difficile che vi venga da pensare ad un virus e al sistema immunitario: magari sarà un maleficio o uno spirito avverso.
L’idea comune di scienza – L’atteggiamento scientifico pervade quindi la nostra cultura, nel senso più esteso, comprendendo anche la nostra coscienza e la nostra consapevolezza. Alle volte la pervade forse in modo ingenuo o ipersemplificato, ma generalmente le persone che conosciamo credono che i sassi non cadano in basso per un loro connaturato desiderio di ricongiungersi con la terra, ma a causa del loro peso dovuto alla forza di attrazione gravitazionale. Non solo le espressioni materiali della nostra cultura ne sono impregnate, ma anche quelle, diciamo così, più astratte (se proprio non volete usare il termine “spirituali”). Ci troviamo infatti in una società tecnologica che produce manufatti, anche di banale uso quotidiano come lo spazzolino da denti, sempre meno improvvisati e sempre più derivati da studi di ingegneria e di economia. Ma produce (o spesso riesce solo a tentare di produrre) anche riflessioni etiche, pure molto impegnative come quelle sull’eutanasia o sugli embrioni umani, improntate alle acquisizioni scientifiche per esempio di attività cerebrale o di sviluppo cellulare. Qui non è in discussione l’opportunità di disfarsi di superstizioni e di affermare la preminenza della razionalità, ma un problema esiste perché, essendo la scienza un prodotto di una delle attività dell’uomo, essa risente della sua coscienza e della sua consapevolezza. È un cortocircuito: l’atteggiamento scientifico influenza l’idea che l’uomo ha di sé che influenza l’atteggiamento scientifico. Siamo sicuri allora che sia un atteggiamento equilibrato, senza pregiudizi, capace di cogliere la verità? L’idea comune di scienza è grosso modo questa: ci sono delle persone molto preparate (gli scienziati) che studiano e osservano imparzialmente le cose (i fenomeni) e danno delle spiegazioni (teorie scientifiche) basate sui fatti (metodo sperimentale). Niente di più falso. Gli scienziati sono delle persone, spesso in rivalità per motivi diversi dalla scienza, spesso con delle fissazioni o delle predilezioni verso cose o aspetti particolari della vita, che inquinano l’obiettività del loro pensiero. È vero che la discussione e il confronto tra colleghi, tipico del processo scientifico, mira a ridurre il rischio di questa aberrazione, ma cosa succede se tutti i colleghi, o meglio quelli più influenti e potenti, condividono la medesima aberrazione? È già successo: nel passato credevano che la malattia fosse una punizione divina e che il sole girasse intorno alla terra. E potrebbe succedere di nuovo, tenuto conto che, a forza di pensare solo a virus, geni, e meccanismi, si finisce per non pensare più a nulla che non sia “materiale”. Non c’è niente di male in questo, almeno fino a che si riescono a dare tutte le risposte in quei termini. Ma quando i conti non tornano più e qualche risposta non arriva, o peggio, arriva ma usa termini “immateriali”?
Le indicazioni della fisica quantistica – Per stare sul classico ci si potrebbe convincere dell’idea che «tanto un giorno la risposta arriverà» oppure che chi dà risposte “immateriali” è un eretico o un ciarlatano, cioè si tira fuori la confortante professione di fede nella scienza o il pigro scetticismo. L’ipotesi non è poi così remota perché tutta la fisica quantistica sta dando indicazioni proprio nel verso dell’“immaterialità”, sia quando consideriamo un corpo (per esempio il nostro) che le relazioni di causa ed effetto, tanto per limitarci ad ambiti molto evidenti. Specificare, con l’aiuto di un paio di grandezze usate dalla fisica, che la materia ha massa e occupa spazio non aiuta. Mi sbilancio: complica. La materia che ha massa e occupa spazio, secondo la chimica e ormai anche secondo il senso comune, è fatta di atomi. Gli atomi sono fatti di protoni, neutroni ed elettroni. Protoni e neutroni sono fatti di quark e leptoni e pure gli elettroni sono un tipo di leptoni. Questi sono (sarebbero) i costituenti fondamentali della materia. Non ci fissiamo troppo sul fatto che alcuni modelli di spiegazione prevedano che quark e leptoni siano punti adimensionali, cioè non occupino spazio, che come inizio non sarebbe male. Fissiamo invece l’attenzione sul fatto riconosciuto nel modello standard: l’energia confinata nei quark contribuisce alla massa di un neutrone (o di un protone) più della somma delle masse dei singoli quark che costituiscono il neutrone (o il protone) stesso. In parole povere: quello che noi normalmente indichiamo come materiale è per lo più composto da ciò che normalmente indichiamo come non materiale. Anche il fenomeno della correlazione quantistica (entanglement) dà una bella scossa al nostro concetto di realtà. In alcune situazioni sperimentali, come il passaggio di un atomo da un livello energetico all’altro, possono prodursi coppie di fotoni correlati. Una delle caratteristiche di queste coppie è quella di possedere allo “stato naturale” (ovvero in una situazione in cui nessun azione viene esercitata su di essi) proprietà fisiche simmetriche (stessa polarizzazione, ad esempio), oppure opposte (rotazione attorno al proprio centro, a destra per uno e a sinistra per l’altro, ad esempio). Ma successivamente avviene che, provocando un cambiamento dello stato del primo fotone (invertendo la rotazione, ora a sinistra), anche il secondo muta (ruotando ora a destra) per mantenere l’accordo iniziale (delle rotazioni opposte). La cosa da brividi è che questo avviene a distanza qualsiasi ed istantaneamente. Allora l’universo si trasforma da locale in non-locale, cioè da una visione, in cui i fenomeni hanno un raggio d’azione limitato nello spazio e la presupposta connessione di causa-effetto si esplica in un dato tempo, si passa ad un’altra visione: quella in cui i fenomeni, gli enti fisici, possono essere collegati fra loro a distanza qualsiasi in connessione istantanea, come se fossero una cosa sola. Se pensate che questi esperimenti, e quindi queste conclusioni, riguardano quelli che la scienza ritiene essere i più fini costituenti della realtà, e quindi anche del nostro (eventuale) corpo e del nostro (eventuale) cervello, allora dovreste avvertire un senso di vertigine: i nostri corpi fisicamente (nell’unico senso fisico definibile adesso: quello della meccanica quantistica oggi) collegati ad ogni altro corpo dell’universo, le nostre menti fisicamente collegate fra loro in una grande mente dell’universo.
Esiste una realtà oggettiva? – Siamo in rotta, non di collisione, ma di convergenza con posizioni mistiche orientali: tutto è uno e l’uno è il tutto. Ovviamente non parleremo di Veda, Tao o Zen perché ho paura di una chiusura, sentendo l’odore di quella che molti chiamano “deriva spirituale”. L’era scientifica in cui viviamo, infatti, ci ha abituati a pretendere l’oggettività come criterio di conoscenza. Questa abitudine, che oggi ci appare così ovvia, scontata, in realtà ci nasconde l’arbitrarietà di questa pretesa, che è ragionevole ma non è l’unica possibile. È ragionevole perché (fino ad un certo punto) i conti ci tornano abbastanza bene: l’automobile funziona in base alla fisica classica, l’elettronica, ormai ovunque, in base alla fisica quantistica, solo per citare quella scienza che ha più fama di oggettività. Diciamo che è ragionevole perché nella nostra vita quotidiana, se non ci fermiamo troppo a pensare, è sufficiente a spiegarci la vita stessa. Anche qualcosa di più di quella quotidiana: il nostro passato preistorico, i segreti del corpo umano, l’universo delle stelle, ecc. L’oggettività sembra dominare come un sole splendente in tutte le direzioni del tempo e dello spazio. Lo spazio però esterno alla nostra mente: infatti, se ci fermiamo davvero a pensare, cioè consideriamo anche lo spazio della nostra mente, comincia a farsi nuvolo. Al criterio che ci sia effettivamente una realtà oggettiva conoscibile fuori dalla mente umana si può opporre infatti l’idea che tutto quello che sperimentiamo come realtà sia all’interno della nostra mente soggettiva che ci fa credere che ci sia una realtà oggettiva esterna. L’obiezione che però voi ve lo sentite che esiste qualcosa là fuori, e che (quasi) tutti gli altri hanno la medesima sensazione, è inutile. È la paura di rimanere al buio da soli che ve lo fa dire. I conti tornerebbero altrettanto bene, perché tanto sarebbe tutto un’illusione. Non solo, ma, anche ammesso che esista una realtà oggettiva, non è detto che sia conoscibile: magari le pagine che avete in mano adesso esistono davvero, ma chissà di che cosa sono fatte “davvero”. Di carta, di atomi, di energia? Oppure niente di tutto questo: potrebbero essere un’illusione assieme a tutte le prove sperimentali che abbiamo della loro esistenza. Sono possibili anche altre posizioni con diverse sfumature e purtroppo non è possibile dire l’ultima parola su questo argomento: sembra proprio essere un problema filosofico irrisolvibile. In molti si sono impegnati in questo (Thomas Nagel, 1986[1] o Baruch Spinoza, 1662, per citare solo due teste in quattro secoli di riflessioni) ed io non mi aggiungerò alla lista.
Le idee di Gödel e di Heisenberg – Paradossalmente la chiarezza può arrivare attraverso la constatazione di un dubbio, perché anche se non fornisce, ovviamente, la soluzione del problema, può ricollocare la nostra posizione nei confronti del problema stesso e da lì permetterci di cercare una nuova soluzione: un passo indietro, riposarsi e riprovare. In definitiva, la proposta non è quella di riesumare la magia o lo spiritualismo ma è quella di prendere contatto con l’eventualità che l’idea di scienza sia da aggiornare, cosa che avrà anche delle implicazioni filosofiche ed etiche. Mi verrebbe da aggiungere, “per fortuna”. Prima di farlo, però, per evitare di portarsi dietro alcune tare ereditarie, sarebbe opportuno eseguire, dove possibile, alcuni movimenti all’indietro (ciascuno dei quali, per la verità necessiterebbe da solo di più di un articolo). È possibile sul “nome” di scienza, che non vuol dire la conoscenza, ma una conoscenza secondo un certo metodo. E questo solo come norma prudenziale, per evitare presunzioni di vario tipo (come lo scientismo, per esempio). È possibile sull’”idea” di scienza, che si contrappone all’idea di non scienza lungo un confine per nulla facile da tracciare e mutevole nel tempo. Perché le conoscenze hanno anche un grado di validità relativo al contesto in cui sono state prodotte: si potrebbe dire che ogni scienza sia passata per uno stadio iniziale di protoscienza in cui era definita in modo non rigoroso, carente di dati sperimentali e di una teoria completamente sviluppata per spiegare tutte le osservazioni. Questo avviene solitamente in un contesto storico in cui il metodo scientifico non è ancora affermato (l’anatomia ai tempi di Leonardo da Vinci, 1500) o in cui la protoscienza non è sufficientemente sviluppata per poterlo impiegare (la genetica ai tempi di Mendel, 1865). È possibile sul “metodo” scientifico, che non è la via, ma una via verso la verità. La filosofia orientale ha diversi punti di sovrapposizione con le spiegazioni della fisica di oggi, ma ci è arrivata alcuni millenni fa, senza gli acceleratori di particelle, e non per caso, ma con una diversa disciplina. È possibile sulla “verità” scientifica, che non è la realtà delle cose, ma una descrizione delle cose. Le grandezze fisiche (massa, forza, energia, ecc.) non esistono in quanto tali, ma sono dei simboli in un modello organizzato, comodo: la materia (massa) è pressoché immateriale, l’attrazione dovuta alla forza gravitazionale può essere sostituita dal movimento lungo le curvature dello spazio-tempo quadridimensionale. È solo un punto di vista con cui ce la raccontiamo. È possibile sulla “descrizione” scientifica della realtà, che non è immutabile, ma anzi variabile, sia nel tempo (prima astronomia geocentrica, poi astronomia eliocentrica) che nel contesto di applicazione (meccanica classica per velocità lontane da quella della luce, meccanica relativistica per velocità vicine a quella della luce), proprio perché non dice come è ma come se fosse. È possibile sulla “percezione” scientifica della realtà, che non è intuitiva ma anzi è controintuitiva per come è oggi la nostra intuizione. La percezione classica di tempo assoluto, di spazio assoluto tridimensionale e di effetti posteriori alle cause ci è molto famigliare e ci basta per la nostra vita quotidiana. La percezione quanto relativistica dello spazio-tempo relativo quadridimensionale e dell’universo non-locale, tutto connesso istantaneamente, è molto meno famigliare perché palesemente e profondamente contrario alla nostra intuizione; fatto aggravato dalla dimenticanza che anche l’idea che la terra giri intorno al sole è contrario all’apparenza e che tutte le apparecchiature elettroniche di uso quotidiano funzionino sulla base di quei principi così poco intuitivi. Tenersi il cellulare e il lettore laser ma rifiutare le conseguenze filosofiche della meccanica quantistica è un po’ troppo comodo. Purtroppo il non avere dimestichezza con la fisica non è una buona scusa, perché quelle idee rimangono controintuitive anche per fisici premi Nobel. Come dicevo, non è un problema intellettuale. È possibile anche sulla “spiegazione” scientifica, che non è completa ma incompleta e incompletabile. Il teorema di incompletezza di Kurt Gödel e il principio di indeterminazione di Heisenberg ci chiedono di rassegnarci a che la scienza (distinta dalla non-scienza secondo il metodo scientifico attuale) non può e non potrà spiegare tutto[2], con buona pace della fede nella scienza.
La moderna epistemologia – Riepilogando brevemente: se la scienza dice come è veramente la realtà, allora questa è veramente molto diversa da come la percepiamo e dobbiamo necessariamente cambiare molte delle nostre idee. Pena: vivere in un mondo di fantasia. Se invece la scienza ci propone solo un modello descrittivamente utile per farci tornare i conti e consentirci una certa manipolazione della realtà che però non conosciamo veramente, allora questa potrebbe essere molto diversa, non solo da come la percepiamo ma anche da come la immaginiamo, perché le descrizioni sempre più raffinate che abbiamo dalla scienza sono sempre più distanti dalla nostra immaginazione. Quest’ultima ipotesi, di non conoscere veramente la realtà attraverso la scienza, ci lascia sospesi (ed è una sensazione un po’ fastidiosa), mentre la prima, che ci lascia sperare in una verità scientifica reale, è figlia del desiderio di fare domande e della pretesa di avere risposte (e funziona da analgesico). La necessità di avere un unico strumento concettuale con cui affrontare tutti i diversi aspetti della realtà non è una necessità logica, ma emotiva. Uno solo sarebbe in effetti comodo ed elegante, ma non c’è nessuna difficoltà o controindicazione intellettuale ad utilizzarne diversi contemporaneamente oppure quello più nuovo ed efficiente in sostituzione di quello obsoleto: esattamente come utilizziamo un coltello per tagliare e un cacciavite per avvitare, senza grossi problemi di comprensione della realtà del taglia-avvita, o come abbiamo abbandonato le tavolette di cera a favore dei computer per la realtà dello scrivere. La necessità emotiva di avere un appiglio sta tutta nei metodi assiomatici: sono quelli che partono da uno o più assiomi per dedurre tutte le conseguenze. Ma la moderna visione dell’epistemologia concorda nel dire che la scienza non può arrivare alla verità assoluta, sia per l’oggettiva incompletezza dei metodi assiomatici (la solita dimostrazione del solito Gödel), sia per l’impossibilità di tener conto di tutte le variabili, visto che molte di esse sono assolutamente casuali ed imprevedibili, come emerge ad esempio dalla meccanica quantistica. La scienza, oggi, è un metodo assiomatico e quindi contiene in sé la prova che non può giungere nemmeno alla verità assoluta del modello descrittivo: cioè non solo non può dirci come è veramente la realtà, ma anche con il modello che ci propone, unicamente per farci tornare i conti, i conti non torneranno mai perfettamente. Certe cose sarebbe meglio saperle subito.
Il superamento dell’orientamento meccanicistico – È possibile un passo indietro anche sulla “convinzione” scientifica, che non è una fede ma una fiducia. La variabilità delle affermazioni scientifiche (provvisoriamente vere fino a prova contraria, cosa che può succedere), la realtà non sostanziale della verità scientifica (è solo un modello descrittivo e ce ne può essere più d’uno), l’intrinseca incompletezza della descrizione scientifica (è solo un punto di vista e ce ne può essere più d’uno, da cui si vedono non solo le stesse cose diversamente, ma anche cose diverse) non inficiano la fiducia nella scienza. Sono tutti aspetti previsti, connaturati, che le permettono fisiologicamente di rinnovarsi e quindi di essere ancora utile. Ma inficiano proprio la fede nella scienza, perché la loro negazione è la base del dogma. Cosa che avviene ciclicamente nel processo scientifico. È possibile sul “progresso” scientifico, che non è l’ingenua accumulazione di fatti e osservazioni spiegati da teorie sempre più complete (nuove osservazioni falsificano la teoria corrente e se ne produce un’altra che ne tenga conto), ma la bellicosa successione di visioni del mondo (nuovi fatti vengono osservati dall’interno della visione corrente che diviene sempre più solida, fino a che l’irrigidimento dogmatico non permette più spiegazioni: allora la visione inutile viene combattuta per essere demolita). Si tratta cioè, per dirla con il filosofo Kuhn, di «rivoluzioni scientifiche»[3]. È possibile sull’“idea di sé” che ha la scienza sedicente moderna, illuminata dalla ragione contro i dogmi della pseudoscienza per ridurre tutta la realtà a parti e processi fisici elementari. E con questo enuncia il suo primo dogma. L’orientamento meccanicistico che vede l’universo, compresa la mente, come un orologio, è obsoleto. La catena causa-effetto è stata stravolta sia dallo spazio-tempo relativo che dalla non-località e indeterminazione quantistiche. Il riduzionismo che ambisce a schematizzare la realtà in “pezzi più funzionamento tra le parti” non è più proponibile: qualche pezzo o qualche processo rimane sempre fuori a causa dell’intrinseca incompletezza. La teoria dell’emergenza, che vuole che le caratteristiche altrimenti inspiegate di un ente complesso emergano dall’organizzazione dei suoi costituenti di livello inferiore, non sussiste in quanto non ci sono vere e proprie proprietà emergenti di sistemi complessi. Il filosofo Nagel afferma a questo proposito che «tutte le proprietà di un sistema complesso che non sono relazioni tra esso e qualcos’altro derivano dalle proprietà dei suoi costituenti, e dai loro effetti reciproci quando così combinati. L’emergenza è una condizione epistemologica: significa che una caratteristica osservata del sistema non può derivare dalle proprietà ordinariamente attribuite ai suoi costituenti. Ma questa è una ragione per concludere che o il sistema ha costituenti ulteriori di cui non siamo ancora a conoscenza, oppure i costituenti di cui siamo a conoscenza hanno ulteriori proprietà che non abbiamo ancora scoperto»[4]. Tanto per tagliare la testa al toro.
Programmi universitari lacunosi – Ma il paradigma vigente, quello di una scienza che riduce a meccanismi e che spiega come stanno veramente le cose, anche se non per motivi scientifici, è ancora forte e allora la nostra mente è (o sarà) i nostri neuroni, e la biologia molecolare spiega (o spiegherà) l’emergere della vita. Questa non è scienza, è ideologia. Due o tre secoli fa, filosofi e scienziati, spesso nella stessa persona, combattevano le idee metafisiche di cerchi perfetti, di un dio-motore dell’universo, di un uomo-centro del creato. Inutilmente. Perché l’ideologia non è nei contenuti, non falsificabili (e quindi non scientifici, come “dio”) o facilmente falsificati (e quindi non scientifici, come le orbite “circolari” attorno alla terra), ma nelle modalità: l’uomo in posizione privilegiata, qualcosa di riconoscibile che governa l’universo e i conti che tornano alla perfezione. L’uomo moderno in cima alla scala evolutiva, i processi materiali motore di ogni universo, la fisica che spiega perfettamente ogni cosa. La “moderna” fede positivista è, a dir bene, ottocentesca. Ma è un bel sogno che rischia di diventare un incubo. Infatti, quando si arriva a parlare del “processo scientifico”, cioè di come le teorie scientifiche si susseguano cercando di migliorarsi e di estendere le proprie spiegazioni, si ha addirittura l’impressione che le dimenticanze e le inclinazioni di chi fa scienza emergano da convinzioni sepolte ben più in profondità della razionalità scientifica. Le idee di “verità” e di “realtà” sono collocate sicuramente nel profondo, ma non è detto che siano razionali. Le considerazioni sul “modello di realtà” che propone la scienza di punta oggi rivelano infatti che questo è diverso dal modello di realtà che propongono gli scienziati oggi. Non tutti, ad onor del vero, altrimenti non saremmo nemmeno in grado di rilevare qui questa discrepanza. Ma la percezione comune è che gli scienziati propongano il modello che propone la scienza; senza però tenere conto che la fisica degli ultimi 50-100 anni propone un modello diversissimo. L’uomo della strada e l’uomo di scienza sono rispettivamente “informati su” e “formati da” quella che viene definita essere tutta la scienza normale, cioè di quello «strenuo e devoto tentativo di forzare la natura entro le caselle concettuali fornite dall’educazione professionale [consolidata]»[5]. Pur senza scomodare quella quantistica, la teoria della relatività è sicuramente fondamentale anche se non è più questa grande novità (1905), ma nei programmi d’esame di Ingegneria quasi non ce n’è traccia (verificare i piani di studio universitari per credere). Nelle facoltà di Fisica non possono non inserirla, ma in quelle di Chimica è possibile evitarla. Vi potete fare da soli un’idea per quelle di Biologia o di Medicina. È chiaro che per studiare all’atto pratico ponti, circuiti, rane o fegati, la relatività non è poi così indispensabile, ma sempre all’atto pratico, questo corrisponde ad un drammatico livellamento della consapevolezza scientifica e dello spirito critico, così necessari invece all’avanzamento e alla rigenerazione della scienza stessa. «La scienza normale [infatti] si basa sull’assunzione che la comunità sa cos’è il mondo, e deriva dalla volontà di difenderla, anche a prezzi considerevoli, ad esempio talvolta anche sopprimendo novità fondamentali»[6].
I pregiudizi dello scientismo – Come se non bastasse, la ricerca scientifica è guidata dal pregiudizio. Non è una battuta: il filosofo della scienza Hanson, mette in luce[7] come «ogni genuino atto di scoperta scientifica si sviluppi dalla capacità di guardare sotto una nuova luce al cosiddetto mondo della realtà; […] l’osservazione empirica non è un mero fatto fisico e soprattutto non è un’operazione teoricamente neutra, ossia è condizionata dalle convinzioni e dalle credenze dell’osservatore. […] Ogni osservazione è per sua natura carica di teoria e le autentiche scoperte scientifiche sono il frutto non dell’induzione o della deduzione [come già avevano dimostrato i falsificazionisti come Popper e Russel][8][9], bensì della retroduzione, vale a dire della individuazione di un nuovo schema di concetti, ipotesi e di formule entro cui sia possibile inquadrare fenomeni di natura diversa»[10]. Per esempio in medicina, se avete come quadro teorico solamente l’origine organica dei malfunzionamenti del corpo umano, non potreste mai riconoscere come malattia quelle che invece oggi, per fortuna, vengono riconosciute come malattie psicosomatiche, proprio perché non se ne individua una causa organica. Questa anomalia nel vostro quadro teorico vi porterebbe o a negare che la malattia esista davvero (se avete una mente ottusa), o a credere che un giorno scoprirete la vera causa organica (se avete una mente chiusa ma piena di fede), o a pensare che qualcosa nella teoria potrebbe essere sbagliato (se avete una mente aperta). La capacità di “retrodurre” che la malattia possa avere cause organiche o psicologiche vi consente di riconoscere le nuove osservazioni come pertinenti e di inglobarle nella nuova teoria. È evidente che elementi troppo lontani dalla vostra teoria corrente non riescono nemmeno ad essere osservati, perché filtrati a monte. Una prova ne è la sequenza Tolomeo-Copernico-Keplero. Il modello copernicano era già eliocentrico ma ancora con orbite circolari. Nella massa (per lo più fornitagli da Brahe) di dati che aveva a disposizione, Copernico vedeva solo orbite circolari e non ellittiche: il paradigma normale era ancora vigente, e orientava le osservazioni a non contraddirlo nel suo nocciolo fondamentale, cioè la perfezione divina dei moti circolari. I dati di Brahe erano quelli, ma, per poterli vedere combaciare con orbite ellittiche, occorreva avere già in mente che orbite ellittiche potevano essere ammesse. Il vero cambio di paradigma, attuato poi da Keplero, fu supportato dai dati, ma non suggerito esclusivamente da essi. In sintesi, non vorrei semplificare troppo, ma lo scienziato (come tutti, del resto) cerca conferme: di quello che ha già in testa. È qui che interviene l’abitudine e l’irrazionalità. Ed è qui che arriva la fregatura. È in questo cortocircuito che viene formata la “verità scientifica”, su cui vengono formati i nuovi scienziati che a loro volta perpetueranno tale verità. Da qui nasce la posizione autoritativa della scienza, o meglio, dello scientismo. In effetti lo scollamento tra i due modelli c’è e si palesa in alcuni orientamenti, persistenti nella scienza normale di oggi, ma figli degli scienziati di tre secoli fa. Come il riduzionismo, la teoria dell’emergenza, il meccanicismo, che hanno permesso di raggiungere risultati ragguardevoli in campo tecnico e applicativo, ma bloccano ogni tentativo di sviluppo del nuovo “modello di realtà”.
Da rivoluzione a rivoluzione – La cristallizzazione del modello dominante è evidente, per esempio, nella teoria della mente, nella teoria dell’evoluzione e nella teoria genetica, ma tra gli elementi di punta in questi settori la competizione per un nuovo paradigma scientifico è già partita e qualche timido scricchiolio si avverte già anche a livello di pubblicazioni divulgative. Si percepisce quindi che siamo in prossimità di una frattura culturale e filosofica e che per essere superata dalla scienza, questa deve trascendere se stessa, e trasformarsi senza essere necessariamente sostituita da filosofie più o meno orientali. D’altra parte, pensare che le resistenze al cambio di paradigma siano in malafede è veramente malevolo e francamente irrealistico. È difficile pensare che la comunità degli scienziati si accorga che il proprio sistema teorico non funzioni più ma che continui a difenderlo: mentire sapendo di mentire, pretendere ragione sapendo di non averla. Sicuramente qualche individuo, qualche gruppo, potrà temporaneamente cercare di salvare la propria posizione (qualche carriera universitaria, qualche finanziamento, ecc.). La situazione però non è verosimile, perché in realtà è molto peggio: davvero non se ne accorge. Chi pretende ragione sapendo di non averla è fondamentalmente un farabutto, ma è recuperabile, perché di fatto il suo è un calcolo che ha una radice razionale anche se ha delle conseguenze nefaste. Non fa una professione di fede, ma una professione di convenienza, segretamente ma consapevolmente. Su quello potrebbe farsi leva con la razionalità. La difesa del paradigma invece avviene per lo più con una professione di fede. Il passaggio ad un altro è, di fatto, una conversione, anche se è stata innescata da considerazioni razionali. La demarcazione tra scienza (paradigma vigente) e non-scienza (tutto il resto) non risente allora solo del criterio di falsificabilità del metodo scientifico e della razionalità che ne sta alla base, come spesso ci si illude che sia, ma anche e soprattutto della disponibilità psicologica a ricredersi e ad abbandonare convinzioni rassicuranti. È a questo punto che, dopo la crisi del paradigma, avviene la rivoluzione scientifica: un effettivo trauma culturale. Poi il trauma viene riassorbito, o come dicono gli psicologi, il lutto viene rielaborato e la vita continua, fino alla prossima crisi.
Bibliografia essenziale
[1] Thomas Nagel, Uno sguardo da nessun luogo, Il Saggiatore, 1998.
[2] Douglas Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, Adelphi, 1990.
[3] Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 1979.
[4] Thomas Nagel, Panpsichismo, in Questioni Mortali, Il Saggiatore, 1986.
[5] Gabriele Lolli, Beffe, scienziati e stregoni, Il Mulino, 1998.
[6] Ibidem.
[7] Norwood Russell Hanson, I modelli della scoperta scientifica, Feltrinelli, 1978.
[8] Bertrand Russell, I problemi della filosofia, Feltrinelli, 1988.
[9] Karl Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, 1970.
[10] AA.VV.,Enciclopedia Garzanti di filosofia, Garzanti, 1985.
L’autore
Ingegnere elettronico, dopo aver conseguito il Dottorato in Elettrotecnica, ha collaborato con il Dipartimento di Ingegneria elettrica dell’Università di Bologna. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni specialistiche e un saggio di divulgazione filosofico-scientifica Libertà e pregiudizio nel pensiero scientifico (Aran Editore).
l’immagine: foto della Galassia di Andromeda.
Marcello Artioli
(LucidaMente, anno III, n. 34, ottobre 2008)