Simboli e segnali misteriosi: “Il cinema del multiple self”: i maestri Lynch e Cronenberg analizzati da Mattia Artibani
Il tema del doppio, dell’ambiguità del reale, del confine tra realtà e artificio, dunque dello sdoppiamento della personalità e della moltiplicazione dei mondi possibili: queste alcune tematiche costanti nelle opere di due tra i più visionari e amati registi del nostro tempo, lo statunitense David Lynch e il canadese David Cronenberg. Mattia Artibani prova ad analizzare e a interpretare il loro criptico linguaggio, i loro virtuosismi, le loro ambivalenze, col saggio Il cinema del multiple self. Lynch/Cronenberg. Mulholland Drive/La promessa dell’assassino (Prefazione di Giacomo Marramao, inEdition editrice/Collane di LucidaMente, pp. 92, € 12,00 – quarto volume della collana di saggistica Gli itinerari del pensiero).
Esso è diviso in due parti, simmetricamente dedicate alle peculiarità dei due maestri e a ciascuno dei due film scelti.
Per offrire al lettore un “assaggio” dell’opera, riportiamo la descrizione e l’analisi, contenuta nella prima parte del libro, del personaggio di Rita (interpretato da Laura Elena Harring) in Mulholland Drive.
È doveroso cominciare ad approfondire il discorso focalizzandosi sui personaggi della storia, personaggi che, come si vedrà, non offrono allo spettatore un unico lato ma mutano vicendevolmente attraverso la narrazione.
Il primo che andremo a incontrare è la donna bruna, ovvero Rita, la prima persona che appare all’inizio del film, seduta sui sedili posteriori di un’auto che sfreccia nel cuore della notte lungo appunto la Mulholland Drive, la lunga strada che dalle colline di Los Angeles porta fino all’oceano.
È un personaggio oscuro, impenetrabile, enigmatico e il suo stesso aspetto esteriore rafforza tale impressione: bruna e conturbante, quasi non parla, lo sguardo piuttosto intimorito e perso nel vuoto di chi non capisce cosa stia succedendo esattamente, ma anche di chi porta con sé una storia di dolore, di smarrimento. Con lei due uomini, uno che le punta una pistola. Poi, paradossalmente, la donna è salvata dall’impatto violentissimo con un’altra auto, che provoca la morte dei due uomini. Dopo tale sequenza la vediamo vagare per le colline della città, fino ad arrivare magicamente in un quartiere residenziale di Los Angeles, attraversando il Sunset Boulevard, chiara citazione del classico film di Wilder, simbolo a sua volta di un’epoca del cinema.
Dunque ricapitoliamo. C’è una strada che si perde nell’oscurità, c’è la notte fonda, c’è una donna bruna che vaga senza un perché: in questo inizio mancano del tutto i minimi punti di riferimento che servirebbero a decodificare le immagini trasformandole in parti di un racconto.
Qui avviene, quasi subito, il fenomeno prima descritto di estraniazione narrativa, ovvero, per seguire il racconto, è necessario dimenticare il filo logico che lega gli eventi tra loro, rinunciare a una spiegazione razionale delle cose ma lasciarsi guidare dall’esperienza emozionale e intuitiva che le immagini suggeriscono. Non bisogna confondere questo fenomeno con una sorta di trance a cui lo spettatore dovrebbe essere sottoposto, pena il fraintendimento del film. Non si tratta di un film privo di racconto, privo di un minimo di unità narrativa o volutamente sconnesso senza inizio né fine. Semmai occorre individuare la logica nascosta, perché una logica c’è, ovvero un senso esiste, il problema è che difficilmente lo si coglierà unicamente con la riflessione razionale, con il meccanismo causa/effetto, ma occorrerà aprire le porte della percezione sensibile, usare tutti e cinque i sensi. Difatti una delle caratteristiche del cinema di Lynch è di essere essenzialmente corposo, nel senso che le sue produzioni non si limitano a essere fruibili unicamente attraverso la vista ma anche attraverso, paradossalmente, il tatto, poiché i colori sono così imponenti e carichi da essere quasi oggetti che fuoriescono dallo schermo e toccano le corde emotive dello spettatore.
Ci si trova così come di fronte a una materia malleabile, da afferrare e manipolare a proprio piacimento rimanendone però invischiati: non si può infatti pretendere di comprendere il cinema lynchiano senza questa esperienza della materialità dell’opera, senza il coinvolgimento emotivo, seppur limitato, nella narrazione.
Dunque, tornando allo svolgimento del film, abbiamo subito davanti agli occhi tutti gli elementi di un mistero, di un senso difficile da cogliere, elementi che aumentano man mano che passano i minuti, poiché questa donna bruna, di cui ancora non sappiamo nulla, si aggira per le villette di Los Angeles senza meta, fermandosi in un giardino a riposare. Alle prime ore del giorno si accorge che nella casa, davanti alla quale lei si è nascosta, sta andando via la padrona, una vistosa signora dai capelli rossi. A questo punto Rita opera la sua prima violazione di un domicilio, cosa che si ripeterà e che avrà un senso importante: la ragazza entra nella casa rimasta vuota e si nasconde sotto un tavolo, ha una vistosa ferita sulla testa e non può fare nient’altro che addormentarsi. È ancora buio e il senso rimane ancora oscuro.
Possiamo quindi dire che il film si apra con una predominanza di toni scuri, su di un mondo inspiegabilmente cupo, che rimanda a un immaginario torbido e morboso, comunque poco limpido.
(da Mattia Artibani, Il cinema del multiple self. Lynch/Cronenberg. Mulholland Drive/La promessa dell’assassino, Prefazione di Giacomo Marramao, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: Naomi Watts e Laura Elena Harring nella locandina del film Mulholland Drive di David Lynch (2001 Asymmetrical Productions, Imagine Television, Le Studio Canal+, Les Films Alain Sarde, The Picture Factory, Touchstone Television).
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno IV, n. 43, luglio 2009)