Nonostante le tante incongruenze attribuibili al Vangelo, l’immagine di Cristo è sempre stata trattata con uno speciale riguardo, a partire dal suo celebre insegnamento sull’amore
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È consuetudine diffusa e consolidata, anche nell’universo della non credenza, in tutte le sue sfaccettature, attribuire alla figura del Cristo una nobiltà e una dignità che trascendono la sua stessa significanza religiosa per arrestarsi – e pare ampiamente sufficiente – sul solo versante umano.
Gesù, anche per chi non lo accetta nel ruolo di figlio di Dio (o di divinità, in quanto partecipe della Trinità), gode di una considerazione estesa e profonda come uomo onesto, predicatore di una dottrina edificante verso i deboli, i poveri, i perseguitati, i puri di spirito e intransigente con i ricchi, i disonesti, i profittatori a ogni livello. All’unanimità ne vengono sottolineati il comportamento esemplare e il rigore, la bontà e il carisma. Anche coloro che non sono sedotti dagli aspetti mistici ne apprezzano le doti umane, che rispettano e valutano positivamente, senza riserve. Si assiste, quindi, a un’attenzione speciale riguardo al giudizio espresso sul Cristo da esegeti o da comuni individui: là dove gli elementi del racconto evangelico suscitano presso gli scettici in campo religioso un sorriso di sufficienza per la presunta ingenuità, verso il rivoluzionario giudeo, al contrario, si mantiene inalterato un grosso credito di stima. Tenendo conto della scarsissima e frammentaria attendibilità storica del personaggio, nonché degli appunti che si possono muovere alla sua osannata predicazione e condotta, il fenomeno appare assai singolare. Anche tra non credenti si discute e ci si confronta sugli infiniti aspetti del rapporto tra cultura umana e trascendente, ma nei confronti del Cristo sembra emergere in automatico una sorta di zona franca, grazie alla quale chiunque si guarda dall’obiettare qualcosa al “giusto” Gesù.
L’aura che lo avvolge mette a disagio chi vuole muovere critiche al suo pensiero e al suo operato. Una sorta di “patto di non belligeranza” condiziona spesso anche l’ateo più incallito, il quale, quasi a inconscia compensazione della propria vis polemica sui diversi territori delle dispute religiose, “concede” e sostiene di non voler mettere in discussione l’irreprensibilità del personaggio umano del Nazareno. Eppure, se ci volessimo liberare di tali remore, affrontando il tema senza alcuna animosità preconcetta e nel pieno rispetto delle regole di una sana, oggettiva disamina, scopriremmo nelle narrazioni degli evangelisti molti tratti discutibili della parola di Cristo, enunciati e programmi utopici, principi socialmente errati, oltre ad atteggiamenti scostanti, imperdonabili in un uomo assurto a simbolo di amore e di bontà (e come tale percepito dai più).
Per un primo spunto proviamo a notare che l’altezza del messaggio etico di Gesù è il frutto di un’attenta e abile operazione di maquillage voluta e realizzata dalla Chiesa, applicando una tecnica di una semplicità disarmante, tipica di tutte le culture monocratiche: è stato sufficiente selezionare ed estrarre dai testi evangelici dettami e comportamenti che, del “figlio di Maria”, esaltavano pregi e doti, tralasciando molti altri aspetti e fatti a lui attribuibili che avrebbero sminuito la sua figura. Un florilegio edificante ha consentito di mettere in luce un Gesù colmo di virtù e saggezza. La Chiesa non solo lo sa benissimo, quando diffonde in tutti i modi e le circostanze possibili questo cliché, ma fa anche affidamento sulla pigrizia mentale dei suoi fedeli, i quali di rado leggono integralmente il Vangelo, oppure non osano esaminare criticamente i numerosi episodi che porterebbero a conclusioni diverse, preferendo fissare l’attenzione sui passaggi che la stessa Chiesa intende valorizzare. Basti pensare al basilare precetto ecumenico, punto di forza e vanto del cristianesimo: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Tale insegnamento ha assunto il valore di messaggio d’amore universale, diretto a tutti gli uomini di ogni condizione, sesso, razza e religione. E, secondo la Chiesa, esso ha superato per la prima volta nella storia del genere umano ogni convenzione etica del tempo e illuminato il futuro con una visione rivoluzionaria.
Ma chi era il “prossimo” per Gesù? Tralasciamo al momento la primogenitura del precetto che, volendo, si ritrova nello stesso Antico Testamento (Levitico XIX, 18) e nelle morali metafisiche della religione persiana e del buddhismo (quindi svariati secoli prima). Sorvoliamo anche sul suo rapporto di subordinazione rispetto al comandamento primario dell’“amore verso Dio” (Vangelo di Matteo, Marco, Luca) ove, in caso di conflittualità tra i due, quest’ultimo deve essere inteso come riferimento prevalente. L’amore, dunque, si realizzerebbe nell’ambito della fede, al di fuori della quale non è più un dovere. E la Chiesa ha dato convincenti esempi di come applicare tale principio quando, dietro lo scudo della religione, ha perpetrato innumerevoli iniquità.
Soffermiamoci invece sul valore delle parole, sul loro significato al tempo in cui visse e operò Gesù. Il “prossimo”, che oggi definisce e comprende ogni altro essere umano oltre se stessi, a prescindere da razza, sesso o culto, per gli ebrei dell’epoca stava a indicare gli altri membri della comunità in cui essi stessi si riconoscevano, con esclusione di ogni altra persona diversa per credo o etnia. Il precetto d’amore fatto passare per universale si riduce, allora, a sacrale solidarietà di un clan religioso. E non si tratta di libera interpretazione di un dispettoso articolista. La stessa Chiesa cattolica conferma integralmente ciò nella nota a commento del versetto 43 del capitolo V del Vangelo di Matteo quando, richiamando il Levitico (XIX, 18), afferma che «gli Ebrei tendevano a considerare come loro prossimo soltanto i connazionali».
Le immagini: un frammento di papiro contenente il Vangelo di Matteo; raffigurazione dei quattro evangelisti; interno della Chiesa del Gesù di Palermo.
Nando Tonon – dall’archivio di NonCredo. La cultura della ragione, «volume bimestrale di cultura laica»
(LM EXTRA n. 31, 20 dicembre 2013, supplemento a LucidaMente, anno VIII, n. 96, dicembre 2013)
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La rappresentazione del cristianesimo sopra proposta è, absit iniuria verbis, alquanto superficiale. Il cristianesimo è la negazione del Decalogo, la negazione del merito conseguito di fronte a Dio rispettando, per quanto umanamente possibile, i suoi precetti: “Se qualcuno afferma che l’uomo può essere giustificato davanti a Dio con le sole sue opere, compiute mediante le forze della natura umana, o grazie all’insegnamento del Decalogo, senza la grazia divina che gli viene data per mezzo di Gesù Cristo: sia anatema” (Conc. Trid., Sessio VI, Canones de iustif., Can. 1); “Noi escludiamo proprio quello che i filosofi considerano il primo compito della giustizia. Essi dicono, infatti, che la prima norma della giustizia sia di non nuocere a nessuno se non provocati da un’offesa; orbene questa norma è annullata dall’autorità del Vangelo” (Sant’Ambrogio, De officiis, I, XXVIII, § 131); “Il Decalogo non solo non è necessario alla salvezza eterna, ma chiaramente inutile e del tutto impossibile” (Lutherus M., Disputatio contra Antinomos. De Lege).
Il celebrato amore verso il prossimo è il perdono incondizionato delle offese che si siano ricevute, risolvendosi così nel rinnegamento di se stessi (Mt 10, 37; 16, 24; Mc 8, 34; Lc 9, 23; 14, 25.33), nella preparazione della distruzione dell’esistente ad opera dell’Apocalisse. Lungi dall’essere un valore, è un disvalore.
Questo è il cristianesimo nella sua oggettività. Da esso si distingue il cristianesimo illuministico che matura a partire dal XVII secolo ed è alla base della cultura propria dell’area della Riforma basata sul primato degli human Rights, sul diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero definito dalla Chiesa cattolica “deliramentum” (“deliramento”), “pestilentissimus error” (“pestilentissimo errore”), “immoderata libertas” (“immoderata libertà”), “summa impudentia” (“somma impudenza”), “mors animae” (“morte dell’anima”) (Gregorius XVI, Ep. encycl. “Mirari vos”), “gravissimus error” (“gravissimo errore”) (Pius IX, Ep. encycl. “Quanto conficiamur”), “horrendum systema” (“orrendo sistema”) (Pius IX, Ep. encycl. “Qui pluribus”).