Nessuno, tra coloro che assistono a una rappresentazione del melodramma Tosca di Giacomo Puccini (su libretto di Illica e Giacosa – Teatro Costanzi, Roma, 14 gennaio 1900), ha il tempo di chiedersi, rapito dalla vorticosa tensione della musica, per quale ragione Cavaradossi, il pittore protagonista dell’opera, debba dipingere in chiesa un quadro che, invece, era costume dei pittori dell’epoca eseguire in studio. Fatte salve le esigenze sceniche che parlano, all’inizio del primo atto, di «un impalcato» sul quale si trova «un gran quadro coperto da tela», nel prosieguo dell’opera ci sarà dato sapere che si tratta di un dipinto dedicato alla Maddalena o nel quale vi è la figura di questa santa.
Era «contro natura», per un pittore del XIX secolo (epoca in cui è ambientato il libretto), eseguire una tela direttamente in chiesa. La scarsa luminosità, i tempi lunghi di esecuzione, soprattutto se si realizzava a olio, avrebbero scoraggiato chiunque sia a commissionare una tela con un siffatto modus operandi, sia il pittore ad arrischiarsi a eseguirla.
Ma Cavaradossi lo fa e, in un’opera dove l’eroina si suicida gettandosi nel Tevere (da Castel Sant’Angelo, in Roma) esattamente dalla parte opposta a dove scorre il Tevere, tale incongruenza è poca cosa.
A olio o a “fresco”?
È logico pensare, a questo punto, che il supporto non sia la tela ma il muro (il dipinto su legno non era proponibile in quanto assolutamente obsoleto), sul quale dipingere a “fresco”. Ma l’affresco, si sa, è una tecnica che prevede una stesura veloce del pigmento, in maniera da evitare che lo strato di calce asciughi troppo in fretta non permettendo la «carbonatazione» della calce, cioè la capacità che la calce ha di assorbire l’ossido utilizzato come pigmento. Quindi, qualora si trattasse di affresco, è ammissibile che Cavaradossi dipingesse in chiesa con tanto di impalcatura ma, utilizzando questa tecnica, il pittore era aduso fare dei bozzetti preparatori e da questi approntare dei cartoni, cioè disegni dell’opera da eseguire, grandi al vero, con tutte le figure definite, e che avrebbe riportato, con particolari accorgimenti, sulla superficie «fresca» dell’intonaco.
Pertanto – ne andava della professionalità dell’artista – egli non poteva non avere idea su come fare il volto della Maddalena visto che Cavaradossi lo realizza con le fattezze della bionda marchesa Attavanti («La vidi ieri, / ma fu puro caso… / A pregar qui venne… / Non visto la ritrassi», si scusa l’artista), riconosciuta dapprima dal sacrestano («Sante ampolle! il suo ritratto!»), quindi da Tosca, che ne approfitta per fare una scenata di gelosia al pittore («La vedi? T’ama? / Tu l’ami? Tu l’ami?»), e poi dal capo della polizia, il barone Scarpia («Il suo ritratto! / Chi fe’ quelle pitture?»), sopraggiunto in chiesa alla ricerca del fuggitivo Angelotti (fratello dell’Attavanti). Poteva, il nostro artista, dipingere il volto dell’Attavanti lavorando a “fresco”? Sì: avendo la possibilità di finire “a secco” il dipinto. Tutti i maggiori freschisti della storia dell’arte usavano finire a tempera (meno frequentemente a olio) gli affreschi. Dunque, qualora Cavaradossi avesse avuto bisogno di fare (o rifare) il volto della Maddalena, avrebbe potuto benissimo ritrarre l’Attavanti e riportare il ritratto sul muro con una mestica collante a piacere.
Volgendo a ritroso lo sguardo, ci accorgiamo che Cavaradossi non è l’unico artista a calcare le scene del melodramma, né le arti figurative ad avere altri riferimenti che non siano le ovvie competenze scenografiche proprie delle maestranze teatrali.
Gli altri “pittori”
Già Puccini stesso, nella Bohème, su versi di Illica e Giacosa (Torino, Teatro Regio, 1 febbraio 1896), aveva inserito la figura di Marcello, il pittore che ha la prima battuta dell’opera («Questo Mar Rosso mi ammollisce e assidera»), mentre dipinge su cavalletto, in studio, accanto a Rodolfo, il poeta, che invece cerca l’ispirazione guardando i «cieli bigi» di Parigi.
I due hanno freddo e decidono di accendere il camino, ma non hanno legna, quindi pensano di utilizzare qualcosa d’altro. Marcello indica la sua tela, ma Rodolfo gli canta: «No. Puzza la tela dipinta» e ciò la dice lunga su quello che i pittori della fine dell’Ottocento (e non solo) usavano come imprimitura della tela, e cioè uno strato di bianco (carbonato) di piombo, olio, ossido di zinco (e, a volte, solfato di bario).
Per tacere dei pigmenti per l’olio, e l’olio (di lino) stesso. Anche qualora avessero preparato una imprimitura a base di colla (colla di coniglio e gesso di Bologna), la «puzza» sarebbe stata notevole. All’inizio del terzo atto, quando Mimì va a cercare Marcello per chiedergli consiglio e aiuto, il pittore, in pieno inverno, sta dipingendo «dei guerrieri» sulla facciata di un locale che ha per insegna il quadro di Marcello Il passaggio del Mar Rosso, che stava bruciando nel primo atto.
Pittore è Gernando, il protagonista del Ritratto di Gaetano Braga (1829-1907) (su libretto di Achille de Lauzières) andato in scena a Napoli il 6 marzo 1858. Questa opera, pur essendo ambientata nel 1615, mostra un pittore che dipinge en plein air con i commenti del coro che apre l’opera mentre osserva il pittore che si esibisce in un dipinto vedutista: «Vedi, vedi! C’è il mulino, / La capanna, il ponticello… / E la siepe. E in cima il pino; / Nulla sfugge al suo pennello».
Più in là nell’opera (Atto secondo, scena quarta), l’agnizione di prammatica avviene proprio mentre sta facendo il ritratto alla donna che somiglia in maniera sbalorditiva a un’altra che egli aveva amato e che si dimostrerà essere proprio lei:
GERNANDO
[…] Oh, quanto il tuo sembiante al suo somiglia!
Più ritto il collo.
GELSOMINA
Vi sbrigate. Stanca
Lo stare in pie’.
GERNANDO (sorridendo)
Ebben, siedi.
GELSOMINA
Oh! Va meglio!
GERNANDO
Là! Il volto un po’ più a manca;
A me gli occhi.
GELSOMINA (guardandolo)
Così?
GERNANDO
No, non guardarmi,
Disegnar non potrei.
I suoi negli occhi tuoi troppo vedrei!
Nell’Adelson e Salvini di Vincenzo Bellini, su un vecchio libretto di Andrea Leone Tottola, (Napoli, febbraio del 1825), Salvini è dichiarato pittore, ma durante l’opera non esercita. Solo Fanny, all’inizio dell’opera, è intenta a dipingere e a pensare al suo maestro che, dopo varie peripezie, sposerà.
Come pittore si spaccia il visconte Carlo (vedi il fascino dell’artista!) per conquistare la bella Linda nella Linda di Chamounix di Gaetano Donizetti (su libretto di Gaetano Rossi, Teatro di Porta Carinzia, a Vienna, il 19 maggio 1842).
Salvator Rosa
Nel Salvator Rosa di Antonio Carlos Gomes, su libretto di Antonio Ghislanzoni, andato in scena per la prima volta al teatro Carlo Felice di Genova il 22 marzo 1874, si dipinge poco, nonostante che sulla scena, all’inizio, l’opera imponga «uno studio di pittore» e vi siano «quadri e tele sbozzate», «busti in marmo e strumenti di musica» presenti, questi ultimi, non si sa bene se come soggetti per le nature morte ovvero utilizzate dal maestro per le sue esibizioni musicali.
L’opera inizia con l’artista intento a dipingere, mentre Gennariello, il giovane discepolo, gli sta attorno motteggiando col maestro: «Ebbene, Gennariello?… Nulla trovi / Sul mio dipinto da ridir?» e questi, naturalmente, esprime il proprio parere: «Quel ciel mi pare / Troppo pesante e troppo tetro il mare». Subito dopo, Gennariello (soprano, en travesti) discepolo di cotanto maestro, intona una canzone («Mia pêccêrella») che sottolinea l’appartenenza napoletana dell’ambientazione e la varietà degli insegnamenti del poliedrico maestro. Ma Salvator Rosa è troppo affaccendato con la politica per potersi permettere lunghe scene di pittura. Solo un cenno alla sua arte pittorica, durante la dichiarazione d’amore a Isabella: «Sulle rive di Chiaia io stava assiso / A ritrar sulla tela un bel mattin / Quando, radiante di celeste riso, / Si arrestò una fanciulla a me vicin / Ella sul mio dipinto / L’occhio tenea rivolto / Io nel celeste volto / Pascea lo sguardo e il cor» (II, 1).
Sia nella realtà storica, sia nella invenzione teatrale, Salvator Rosa partecipa alla insurrezione popolare di Masaniello (1647) il quale, nell’opera, è suo amico e coprotagonista. Invece la storia d’amore tra Isabella, figlia del Duca d’Arcos (legato alle vicissitudini masanelliane anche nella realtà storica), e Salvator Rosa, assolve la vicenda amorosa di prammatica e manleva il personaggio storico dall’appartenenza alla cosiddetta «Compagnia della morte» (mai citata dal libretto), che, formata da artisti quali Aniello Falcone, Paolo Porpora, Antonio Vaccaro, contemplava l’uccisione di spagnoli nelle strade di Napoli, quale vendetta per la morte di un loro amico.
Inoltre corrisponderebbe alla realtà storica l’avvelenamento di Masaniello, proposto anche nell’opera (III, 1), da parte dei nobili spagnoli, per mezzo di un potente allucinogeno (la roserpina) che avrebbe causato l’improvvisa pazzia del popolare eroe partenopeo («Hombre loco desatinado»: un uomo pazzo scatenato, come lo definirono con disprezzo).
Goya
Al grande artista spagnolo Goya è dedicata l’opera omonima composta da Gian Carlo Menotti (suo è il libretto), nella quale, com’è tradizione del melodramma, la storia narrata si discosta dalla storia vera.
Allestita a Washington nel 1987, narra le vicende del grande artista spagnolo coinvolto in una storia d’amore con la duchessa d’Alba. Ambientata nel XVIII secolo, si apre in una locanda di Madrid dove Goya incontra una donna che si presenta come la cameriera della duchessa d’Alba. Ormai ubriaco, Goya si fa conoscere da lei come pittore cantando: «Frotte d’angeli in volo, / Se così tu vuoi, / Santi e vergini / Trionfanti o supplici. / Che altro vuoi di più! / So dipingere corpo e anima, / So dipinger sogni e realtà, / Il profumo d’una chioma, L’attonito sguardo d’un bambino. / So dipinger libidine e ignoranza. / La maschera del vizio, / Il volto della fame / La smorfia del terror. / So dipinger la follia, / Il coraggio, la viltà, / Io so sotto le vesti / Rivelar il corpo nudo. / Col pennello io scruto l’immensità».
L’artista segue la cameriera a Palazzo d’Alba, e qui scopre che la ragazza altri non era che la duchessa. Costei chiede al pittore di farle il ritratto e a questo punto il pittore dalla tela passa, su richiesta della duchessa, a dipingere direttamente sul viso della donna, realizzando una vera e propria «performance».
I fiamminghi e Giorgione
I pittori fiamminghi è il titolo di un melodramma che Luigi Illica scrisse per il compositore Antonio Smareglia e che dapprima ebbe come titolo Cornill Schut (Dresda, 1893). Fu rappresentato in lingua italiana a Trieste il 21 gennaio 1928. Nell’opera si parla di pittori e di pittura con riferimenti a quadri, chiese da decorare, ecc. L’opera si conclude con l’ultimo quadro dipinto da Cornill, il protagonista, il quale raffigura una Madonna con le sembianze dell’amata Elisabetta.
Giovanni Magnanini (1841-1901) compose un’opera-ballo dal titolo Giorgione da Castelfranco (libretto di Giovanni Battista Fantuzzi), allestita al Teatro Municipale di Reggio Emilia il 25 maggio 1881. Il famoso pittore veneto, anche in fatto di musica, sapeva il fatto suo se, come scrive il Vasari: «piacqueli il suono del liuto mirabilmente e tanto, che egli sonava e cantava nel suo tempo tanto divinamente, che egli era spesso per quello adoperato a diverse musiche e ragunate di persone nobili».
«Quella è l’original, questa è il ritratto»
L’espediente scenico del ritratto è presente, nella rappresentazione melodrammatica, in un numero non trascurabile di opere. Grandi quadri, statue, miniature scorrono sui palcoscenici operistici coinvolgendo i personaggi in situazioni che altrimenti non avrebbero potuto (o saputo) giungere alla conclusione o agevolarla.
Nel Ballo in Maschera di Giuseppe Verdi (1859) un grande quadro di Riccardo domina la scena in maniera che l’invettiva di Renato, dell’Atto terzo («Eri tu che macchiavi quell’anima»), possa avere più effetto. Allo stesso modo in Rigoletto (1851) il buffone scaglia con impeto il suo «Sì, vendetta tremenda vendetta» rivolgendo l’invettiva verso il ritratto del Duca di Mantova. Nella Anna Bolena di Donizetti (1830) Smeton lascia cadere il ritratto di Anna, che stava contemplando all’inizio della scena («Ah, parea che per incanto» I, 9), e che servirà egregiamente, come scusa, a Enrico VIII, per condannare Anna alla pena capitale per adulterio. Nella Traviata di Verdi (1853) Violetta, alla fine dell’opera, consegna una medaglia con la sua effigie ad Alfredo, affinché egli non la dimentichi («prendi quest’è l’immagine / de’ miei trascorsi giorni / a rammentar ti torni / colei che sì t’amò»).
Intorno a un ritratto ruota l’intera vicenda del piacevole dramma giocoso in due atti, Lo sposo di tre e marito di nessuna, composto da Luigi Cherubini (su libretto di Filippo Livigni, Venezia 1783) nel quale l’equivoco provocato da un ritratto sta per mettere a mal partito gli spasimanti di due donne: «Se la bella del ritratto / tu non sposi in quest’istante, / cava il guanto, fatti avanti, / ricomincia a duellar » (I, 13). Jules Massenet recupera alla memoria del pubblico la sua famosissima Manon Lescaut (1884) con un’opera che ne è la prosecuzione: Le portrait de Manon (su libretto di Gorge Boyer, 1894). In questa opera un vecchio Des Grieux, l’antico amante, è alle prese con Aurore, la nipote di Manon, figlia del sergente Lescaut, innamorata – quando si dice il caso – del nipote di Des Grieux, Jean, visconte di Morcerf. La scoperta casuale del ritratto di Manon farà in modo che gli eventi arridano ai due innamorati, eventi che Massenet farcisce con i temi più celebri della Manon primigenia.
«Il tuo viso ho sculto in petto»
È il mitico scultore Pigmalione, figura tratta dalle Metamorfosi di Ovidio, che ha infervorato le fantasie musicali e agevolato la nascita di alcuni melodrammi con il suo personaggio, e quello di Galatea.
Dalla «scène lyrique» Pygmalion di Jean-Jeacqus Rousseau (su libretto suo, opera conclusa da Horace Coignet e rappresentata nel 1770), nella quale lo scultore sta per colpire con lo scalpello la statua di Galatea quando questa si anima, al Pigmalione di Giovanni Battista Cimador (su libretto di Antonio Simone Sografi, da Rousseau, Venezia, 1790), al Pimmalione di Luigi Cherubini (su libretto di Vestris, tratto da Rousseau e mutuato da Sografi, allestita a Parigi nel 1809), al Pigmalione (da Sografi) di Donizetti, prima opera composta dal compositore nel 1816 (ma rappresentata postuma nel 1960 a Bergamo).
La parodia del mito si compie nella Die schöne Galatee (La bella Galatea) di Franz von Suppé (su libretto di Poly Henrion, messa in scena a Berlino nel 1865), nella quale Pygmalion dapprima prega Venere affinché animi la sua bella creatura, ma quando Galatea diventerà impudente e maliziosa, facendogliene passare di tutti i colori, un’altra preghiera di Pygmalion la farà tornare di marmo. La statua di Galatea sarà venduta al ricco intenditore Mydas.
I “convitati di pietra” ossia Don Giovanni
A questo punto un’altra statua si impone alla nostra attenzione: quella del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart (su libretto di Lorenzo Da Ponte, messo in scena a Praga nel 1787), indubbiamente il più famoso esempio di una numerosa schiera di opere sullo stesso argomento che prendono anche il titolo de Il convitato di Pietra, anticipando o succedendosi al capolavoro mozartiano.
Dal Don Giovanni o il convitato di pietra ossia Il dissoluto di Vincenzo Righini (Vienna, 1777), al Convitato di pietra di Giuseppe Calegari (Venezia, 1777), al Don Giovanni ossia Il dissoluto punito di Gioachino Albertini (Varsavia, 1783), al Convitato di pietra di Giacomo Tritto (Napoli, 1783), al Nuovo convitato di pietra di Fabrizio Gardi (Venezia, 1787), al Convitato di pietra di Vincenzo Fabrizi (Roma, 1787), al Don Giovanni o sia Il convitato di pietra di Giuseppe Gazzaniga (Venezia, 1787), al Convitato di pietra di Aleksandr Dargomyžškij (Pietroburgo, 1872).
Tutte opere nelle quali, invariabilmente, la statua del Commendatore è in un cimitero (ma nell’opera musicata da Tritto è in una chiesa), mentre nell’opera di Dargomyžškij il Commendatore non è invitato a cena ma a fare la guardia alla porta di Donna Anna. L’intervento «soprannaturale» dell’animazione di una statua di pietra, possibilissima in teatro anziché no, è ulteriormente legata, da un lato, all’animazione della statua di Alice Manfredi, in Zampa ou La fiancée de marbre di Ferdinando Hérold (su libretto di Anne-Honoré-Joseph Duveyrier de Mélésville, Parigi, 1831), nella quale Zampa infila un anello a un dito della statua che raffigura Alice, da lui sedotta, e questa si anima minacciandolo (alla fine Zampa scomparirà tra le fiamme dell’inferno in un molto velato riferimento al Don Giovanni) e, dall’altro, all’esperienza di Olympia, la donna-automa che si rompe mentre canta, ne Les contes d’Hoffmann (I racconti di Hoffmann) di Jacques Offenbach (su libretto di Jules Barbier, rappresentata postuma a Parigi, 1881).
La statuaria in bronzo
La statuaria in bronzo non pare abbia interessato particolarmente l’opera, a parte La testa di bronzo di Carlo Evasio Soliva (su libretto di Felice Romani, data alla Scala di Milano nel 1816), non più di un semplice espediente scenografico (un piedistallo su cui sta una testa di bronzo cela un passaggio segreto) e ne Le cheval de bronze (Il cavallo di bronzo) di Daniel Auber (Parigi, 1835).
Il riferimento appena fatto all’«automa Olympia» non è casuale ed è ascritto proprio a quella caratteristica che il bronzo possiede e cioè di essere più leggero, trasportabile (e soprattutto cavo all’interno) rispetto alla pietra, inamovibile per antonomasia. Il «convitato di pietra», quindi, è di sicuro e più terrifico effetto rispetto ad una statua di bronzo – o di metallo lavorato – che si muove: d’altronde «i Mori» che battono le ore nell’orologio della torre di Piazza San Marco a Venezia sono in bronzo e si muovono anche se soltanto attorno al proprio asse e con movimenti semplici e circospetti.
Uno scultore fiorentino, Beltrame, inoperoso (anche nel canto) è presente nel Marino Faliero di Donizetti (libretto di Giovanni Emanuele Bidera, Parigi, 1835).
Benvenuto Cellini
A Benvenuto Cellini, scultore e orafo fiorentino, è dedicato l’intero melodramma omonimo (opéra-comique) di Hector Berlioz, entusiasta dopo la lettura della Vita di Cellini, conosciuta, con molta probabilità, intorno al 1833, nella traduzione di Denise Dominique Farjasse.
Il libretto che Barbier e Wailly stesero sotto la direzione del compositore risulta essere un libero adattamento con numerose aggiunte tratte dalle «convenienze» dell’opéra-comique. Intanto la fusione del Perseo, che rappresenta il culmine del dramma, è trasportata da Firenze a Roma (non bisogna dimenticare che Berlioz soggiornò a Roma, grazie al Prix de Rome, nel 1831-1832) e realizzata non per Cosimo I, autentico mecenate della scultura, bensì per papa Clemente VII, presso il quale Cellini aveva lavorato nella prima parte della sua carriera. Dall’elenco dei personaggi, individuiamo le persone realmente vissute: Benvenuto Cellini (1500-1571), scultore e orafo fiorentino, protagonista dell’opera (tenore); Giacomo Balducci (Jacopo) fino al 1529 sovrintendente alla Zecca vaticana e, anche nella Vita, nemico di Cellini (basso); Fieramosca (baritono); Papa Clemente VII (Giulio de’ Medici, 1478-1534) che la censura parigina mutò, però, nel cardinal Salviati (basso); Francesco (tenore) forse riconducibile all’orafo Francesco (I, XCIII); Bernardino (Manellini), garzone, poi discepolo di Cellini (basso); Pompeo (baritono) – pare che Cellini sia stato coinvolto in un duello con una persona con questo nome; Cabaretier (tenore); Teresa (soprano); Ascanio (Ascanio di Giovanni de’ Mari), discepolo di Cellini – ma in tempi diversi da Bernardino – (mezzosoprano).
La fusione del Perseo
Il finale dell’opera riassume, in maniera concitata, la fusione del Perseo, parafrasando il racconto di Cellini nella Vita (capitoli LXXVI, LXXVII e LXXVIII del secondo libro).
«Subito andai a vedere la fornace, e viddi tutto rappreso il metallo, la qual cosa si domanda l’essersi fatto un migliaccio [metallo rappreso]. […] Allora io feci pigliare un mezzo pane di stagno, il quale pesava in circa a 60 libbre, e lo gittai in sul migliaccio. […] E veduto che ’l metallo non correva con quella prestezza ch’ei soleva fare, conosciuto che la causa forse era per essersi consumata la lega per virtù di quel terribil fuoco, io feci pigliare tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa a dugento, e a uno a uno io gli mettevo dinanzi ai mia canali, e parte ne feci gittare drento nella fornace». Sulla scena un susseguirsi di operai e garzoni chiedono febbrilmente «Du métal! du métal! du métal!», a cui Cellini risponde con una preghiera a Dio che nella Vita ha queste cifre: «O Dio, che con le tue immense virtù risuscitasti da e’ morti, e glorioso te ne salisti al cielo!», mentre nell’opera si trasforma in: «Seigneur, use de ton pouvoir! / Dans ta main est le seul remède / Si tu ne veux pas je cède / au désespoir, / Aide-moi donc, puisque je m’aide!» (II, 19).
Nell’immaginaria fonderia, presso il Colosseo, scenicamente descritta dal compositore francese (Cellini ebbe bottega a Roma in via dei Banchi Novi – Vita, I, LI) ci si appresta alla concitata conclusione («Prenez tout ce que je possède! / Courrez, ne laissez rien dans l’atelier. […] Courez, courez, n’importe! / Or, argent, cuivre, bronze, emporte, / et jette tout dans le brasier», III, 19) per mezzo di un boato risolutore dell’agognata colata in bronzo. Ciò dovrebbe servire quale monito ai registi contemporanei affinché giustamente adottino sulla scena una «fusione a terra», e non inventarsi crogiuoli di sorta, in quanto Cellini, secondo l’uso di maestro Zanobi di Pagno (Vita, II, LXIII), fonditore di campane, utilizzò questa tecnica, e anche perché, così facendo, la «détonation» risolutrice, sia della fusione sia dell’opéra-comique, sarà più credibile: «Innun tratto ei si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo, che parve proprio che una saetta si fussi creata quivi alla presenza nostra».
L’immagine: cartolina (1900) della Tosca di Giacomo Puccini.
Francesco Cento
(LM EXTRA n. 14, 14 febbraio 2009, supplemento a LucidaMente, anno IV, n. 38, febbraio 2009)