Il noto storico delle dottrine politiche Dino Cofrancesco interviene sulla nostra rivista nel dibattito sul riconoscimento delle coppie di fatto e sul “welfare all’italiana”
Per me, la “religione della libertà” – espressione che mi ricorda l’amatissimo don Benedetto [Croce, ndr] – significa che anche in campo bioetico vanno rispettate tutte le filosofie e che non si può imporre a tutti la “concezione della normalità” che ha in mente, per fare un nome, Chiara Saraceno, così come non si può imporre a tutti quella che ha in mente Paola Binetti (due erinni scatenate di segno opposto).
In questo campo, come in altri campi relativi all’etica sociale, non esistono verità incontrovertibili e se qualcuno, come me, è a favore del riconoscimento delle coppie di fatto ma decisamente contrario al matrimonio gay con adozione (che i “nuovi socialisti” hanno tanto a cuore, giacché la loro political culture da tempo non è più quella antica, rassicurante, positivista e turatiana, che fu l’anima del “riformismo reale”, ma deriva dall’eterno ribellismo antiborghese che Croce chiamava “attivismo” e che fu la fucina da cui nacquero i fratelli coltelli: fascismo e azionismo), quel qualcuno va rispettato e la sua opinione messa ai voti. Se una maggioranza di elettori si esprimerà in senso zapateriano, fiat voluntas populi. «È la democrazia, bellezza!».
Non mi si venga, però, a parlare di diritti indisponibili o di altre (non tanto) innocue ciance laico-giusnaturalistiche. Ai sedicenti liberali-libertari sarebbe opportuno ricordare che il liberalismo non è una teorica dei diritti (come riteneva, sbagliando, uno dei miei più cari maestri, Norberto Bobbio), ma una teorica delle libertà. La differenza è enorme, capitale. Riconoscere diritti a una categoria di cittadini significa impegnare tutti a farli valere (se riconosco il diritto al lavoro, debbo dare agli enti pubblici una massa ingente di poteri e di risorse per assicurarlo a ogni disoccupato); riconoscere le libertà significa astenersi dall’interferire con le scelte del prossimo, che riguardano soltanto lui e non comportano nessuna spesa per gli altri (e quindi non obbligare chi intende aprire una rilegatoria a passare attraverso le forche caudine della burocrazia, al termine delle quali attende al varco il fisco, con la sua implacabile filosofia dei redditi presunti… che non hanno nulla a che e vedere coi redditi reali).
In Italia, purtroppo, per colpa soprattutto della cultura azionista (vedi Bobbio, Calamandrei, lo stesso Calogero, che è uno dei miei padri spirituali), i due piani si confondono e si sovrappongono, per cui può definirsi liberale persino Stefano Rodotà che chiama «terribile diritto» (espressione di Beccaria) quel diritto di proprietà, in mancanza del quale non può realizzarsi alcun tipo di “società aperta”. Comunque, la pacchia sta per finire e anche i neo-azionisti (liberalsocialisti, radicalsocialisti, radicali tout court) tra poco vedranno come il welfare all’italiana abbia i giorni contati, giacché, come dicono spiritosamente gli hayekiani, «anche i soldi degli altri prima o poi si esauriscono».
È pur vero che per la sinistra c’è sempre il fattore B: se Berlusconi si ricandida davvero (dopo prove così manifeste di malgoverno e un’assoluta incapacità di realizzare le più esili e meno costose riforme liberali) allora l’altro B (Bersani) avrà buone probabilità di succedere a Monti. Non la Cina, ma il caos è vicino… Dixi et servavi animam meam.
Dino Cofrancesco
(LM EXTRA n. 29, 20 luglio 2012, supplemento a LucidaMente, anno VII, n. 79, luglio 2012)