Suggestivi ricordi di una dolce infanzia da “Senza mistero” (inEdition editrice) di Agostino Secondino
Tra la costellazione dei generi letterari, Senza mistero di Agostino Secondino può essere considerato un metaromanzo o, meglio, un “iperromanzo”. L’ampia opera, infatti, presenta ricordi, storie individuali e collettive, rievocazioni, dialoghi “filosofici”, riflessioni da romanzo-saggio, e mille spunti poetici. Una narrazione dolce, nella quale è sempre presente un sincero afflato religioso: una costellazione di luci adamantine entro il viaggio sempre incerto, ma esaltante, della vita.
L’autore tocca anche, alla luce della neuropsicobiologia e della teologia, i misteri inquietanti dell’esistenza (divinità, immortalità, amore, vocazione, efficacia della preghiera, avvento dei futuri esseri umani angelicati per selezione naturale), ponendoci di fronte al tema del segreto della vita per trasmetterci il coraggio di vivere senza mistero e per convincerci che ciò che oggi è mistero domani non lo sarà.
Dell’opera (pp. 236, € 18,00), dodicesima uscita per la collana di narrativa La scacchiera di Babele della inEdition editrice/Collane di LucidaMente), offriamo come assaggio uno splendido brano, irrorato di liricità, che rievoca gli anni scolastici dello scrittore.
M’incamminavo per raggiungere la scuola con la bicicletta paterna, usurata dal tempo, per mattine e mattine, nella tremolante luminosità spazzata dal sole o al soffio del vento o sotto una pioggia dirotta o nei veli di nebbia o al cader della neve che riempiva le strade. I passanti lanciavano occhiate stupiti al minuto ragazzo di tredici anni in bici, con una giacca di velluto color muschio, calzoni verdi, un grazioso berrettino nero che lasciava fuori i capelli come foglie scure di una pallida rosa, con un ombrello appeso al manubrio o tenuto aperto sotto la pioggia, e una grossa cartella di cuoio color marrone, attaccata al telaio. I giorni d’inverno, quando un cupo e gelido vento schiantava gli alberi impedendo di circolare, noi tre, come diamanti nella notte oscura, ardivamo, con spericolatezza da brivido, aggrapparci alle sponde di camion che, carichi di sabbia, procedevano con una certa lentezza lungo la salita Barignano. Quando non potevamo percorrere la strada battuta dalla tempesta, ci veniva incontro Toni, il padre di Novi, con un calesse coperto da un gran baldacchino, riparo di noi fradici e sfiniti, dopo che avevamo abbandonato le bici in un casale vicino. Come eravamo contenti sotto quella folle pioggia intrisa di stelle!
Arrivato a casa, la mamma teneva già pronto il vestito da cambiare, un braciere coperto da una piccola e graziosa cupola di strisce di legno su cui poneva i panni inzuppati per farli asciugare e sulla tavola, in una cucina annerita dal fumo, un piatto di minestra e un pezzo di salsiccia o una saporita fetta di prosciutto di un maiale allevato in casa. Dopo il frugale pranzo salivo nella mia grande e fredda stanza con al centro un tavolino rettangolare, che ancora oggi gelosamente conservo, con sotto un braciere e sopra un cero per schiarire le nere giornate invernali e la sera per poter studiare fino a quando la mamma con voce dolce e decisa mi chiamava per la cena, invitandomi subito dopo ad andare a letto perché l’indomani mattina mi sarei dovuto svegliare presto. Ed io, come un automa, salite le scale, chiusa la porta, tolto il copriletto di seta color avorio dai ricchi ricami, spegnevo la lampada ad olio, un singolare modello di artigianato locale, in terracotta verniciato, posta sul comodino, mentre l’oscurità si addensava nella stanza e silenziosamente le ombre entravano dal giardino. Recitata una breve preghiera alla divina Provvidenza, il dio Morfeo mi prendeva tra le sue braccia e nel profondo sonno sognavo la cattedra di legno lucido con sopra i libri di scuola sgualciti, da cui esalava un odore acre di incenso da turbare la mente; e dietro, sulla parete, una grande lavagna, e un insegnante di meravigliosa bellezza che, con monotonia sottile, e una gioia quasi crudele, apriva il registro per le interrogazioni, mentre un silenzio da tomba regnava nell’aula. Istintivo terrore, fantasmi più terribili della realtà stessa, poi un sospiro di sollievo e di gioia per averla scampata.
Mi sveglio di soprassalto tremante, ombre mute si acquattano negli angoli della stanza, rumori del babbo che va a governare le mucche, uccelli che cinguettano sul grande albero di acacia ai bordi dell’aia, singhiozzi del vento che scende dal monte Maiulo e si aggira intorno alla casa solitaria. Apro le imposte dalla finestra e noto soffici veli di nebbia che si sollevano ad uno ad uno su per i monti vicini, e a gradi coprono i campi. E’ l’alba a restituire alle cose forme nuove e colori. Dalle ombre della notte nasce di nuovo la vita che riprendo dove l’ho lasciata, il giorno prima, nel monotono circolo di abitudini stereotipate. Ripasso le lezioni, metto in ordine la cartella, faccio le pulizie personali, e poi, dopo una colazione con latte ed orzo e un bel bicchiere di uovo di giornata sbattuto nel vino marsala, gonfio le gomme della bici e mi avvio percorrendo la strada non asfaltata che porta a scuola, dove ad attenderci all’ingresso dell’istituto v’era il preside Defragì, un sacerdote di Piana di M., che spesso radunava gli alunni e gli insegnanti in un lungo corridoio per scongiurarci di non leggere i giornali sportivi o Diabolik perché ci distoglievano dallo studio e corrompevano gli animi.
(da Agostino Secondino, Senza mistero, Prefazione di Rino Tripodi, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: panorama dei luoghi dove si svolgono parte delle vicende narrate in Senza mistero (foto dello stesso Agostino Secondino).
Simone Jacca
(LucidaMente, anno IV, n. 43, luglio 2009)