Se le parole non bastano, oppure dividono, la narrazione di un orrore come quello dilagato a Parigi il 13 novembre ci parla con simboli nuovi e universali
A distanza di settimane dalle immagini della Parigi del 13 novembre, sono ancora intatti il trauma, la paura per il futuro, l’incertezza per gli sviluppi politici e militari; è ancora sotto minaccia quella quotidianità che, a caro prezzo, abbiamo scoperto essere il nostro bene più prezioso. Si ricomincia quindi dall’inizio, dal tentativo di capire ciò che la visita della morte ci ha insegnato, sin dalle prime ore dalla sua irruzione: parlare, raccontare, gestire la paura.
Subito dopo gli attentati si sono diffusi simboli, loghi e disegni per testimoniare solidarietà alle vittime. Una delle prime forme che ha provato a dare voce e senso alla notte di quel venerdì è stata l’immagine intitolata Peace for Paris, diventata in poche ore virale in tutta la rete. Una tour Eiffel stilizzata e inscritta nel simbolo della pace, segno di leggerezza e immediatezza, dall’artista al foglio, per poi arrivare a tutti. L’opera del giovane illustratore Jean Jullien è diventata l’equivalente del motto «Je suis Charlie», nato dopo la strage della redazione di Charlie Hebdo lo scorso gennaio. Anche se muto, il messaggio visivo di Jullien è stato più forte delle parole, le ha superate, riuscendo a oltrepassare barriere linguistiche e interpretazioni concettuali. A rendere davvero contagiosa l’icona, però, è stata la sua condivisione su Twitter da parte di un fan di Banksy. Da lì è nato il fraintendimento: sia gli utenti sia i giornali hanno attribuito l’illustrazione al più noto writer inglese.
La frenesia, l’impreparazione, la tensione del momento, hanno generato molti errori, come se i media fossero pronti a far rimbalzare qualsiasi frammento di notizia riuscissero a intercettare. È stato detto che la tour Eiffel veniva oscurata in segno di lutto, ma le sue luci si spengono sempre all’una; è stata divulgata la foto di un concerto degli Eagles of Death Metal svoltosi la sera precedente a Dublino, riferendola però al Bataclan (vedi il contributo di Emanuela Susmel dedicato al teatro obiettivo dei jihadisti); sono spuntate immagini di attentati avvenuti mesi prima o in altri luoghi. Durante il caos e il panico di quelle ore, i social sono rimasti l’unico, spesso confuso, canale di informazione per le vittime e per il mondo che guardava.
Abbiamo assistito a un nuovo tipo di giornalismo, entro il quale si sono rincorsi strilloni da prima pagina e rettifiche e si è imposta la necessità di verificare in tempo reale le voci in circolazione. Al posto delle parole fuorvianti, però, sono arrivati altri codici univoci e più efficaci. Nelle prime ore dopo gli assalti, infatti, è stata attivata la safety check, una funzione di Facebook che ha permesso agli utenti presenti a Parigi di avvisare tutti i loro contatti di stare bene. L’applicazione sfrutta il meccanismo della geolocalizzazione: identifica la posizione nel mondo di un dato oggetto, come un cellulare o un computer, e trasmette il dato in tempo reale. Un disegno, una matita, una tecnologia, capaci di creare e sfruttare le risorse a nostra disposizione, ci hanno quindi indicato una via per essere uniti, l’unico modo per elaborare il lutto degli attacchi e proteggerci dai fantasmi futuri.
Le immagini: il disegno intitolato Peace for Paris e la schermata della safety check di Facebook.
Antonella Colella
(LucidaMente, anno X, n. 120, dicembre 2015)