Le varie sfaccettature della Criminologia positivista e il giusto equilibrio tra influenze ambientali e libero arbitrio ai fini della punibilità dell’infrattore da parte della Giustizia
La prova della natura sociologica e non ontologica del crimine è data dal fatto che le devianze contro l’Ordine costituito variano a seconda delle epoche e delle zone geografiche. Non esiste una criminalità in senso assoluto.
Per esempio, gli illeciti in materia sessuale in Italia non sono gli stessi riscontrabili nei Paesi arabi. Oppure, i delitti di pedofilia e di pedopornografia sono stati introdotti, perlomeno nella legislazione italiana, soltanto a metà degli anni Novanta del Novecento. Oppure ancora, il termine “pudore”, nel Codice penale italiano, è stato radicalmente stravolto nel corso dell’ultima quarantina d’anni.
Dunque, quel che è considerato “infrazione antigiuridica” in un dato Ordinamento non lo è o non lo è più con il mutare del tempo e della struttura sociale, pur se, a parere di chi redige, deve pur sempre rimanere uno “zoccolo duro” di reati cosiddetti “perenni”, come nei casi dell’omicidio non giustificabile, della violenza non proporzionata, della sessuomania eterolesiva e dei crimini di guerra.
L’errore del positivismo e il giusto equilibrio tra suggestione criminogena e libero arbitrio
Tuttavia, il positivismo sbaglia allorquando afferma che i condizionamenti sociali non attenuano semplicemente, bensì tolgono radicalmente l’imputabilità del responsabile del reato. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, molti Autori, nella Sociologia e nella Criminologia, si sono lasciati affascinare da un determinismo radicale e intransigente, che presenta l’infrattore alla stregua di un mezzo animale a cui le sottoculture dominanti tolgono la capacità di autodeterminarsi.
Anche le neuroscienze, in epoca contemporanea, dipingono l’imputato, specialmente se minorenne o giovane adulto, come un individuo completamente succubo dei condizionamenti collettivi.
La corretta posizione dev’essere quella che non postula, nel deviante, la sussistenza deterministica e perenne di malattie mentali. Un conto è l’influsso dei modelli socioculturali e massmediatici; un altro conto è la decisione individuale di aderire, con deliberato consenso, a tali suggestioni antigiuridiche. La “società”, per quanto pervertita, non annichilisce sempre e comunque la libertà individuale di poter aderire a stili di vita “normali” e onesti.
L’esecuzione penitenziaria statunitense “animalizza” il detenuto
La Criminologia statunitense non ha saputo trovare una giusta misura tra la ratio del “condizionamento sociale” e quella della riduzione sistematica del detenuto a una bestia sfrenata da contenere. Negli Stati uniti d’America domina una visione positivistica e medicalizzata della criminalità, cosicché la persona ristretta viene degradata a un disabile incurabile e intrattabile al quale somministrare forti cure psicofarmacologiche.
Si tratta di uno stereotipo molto pericoloso, che finisce per negare il fine rieducativo e risocializzativo della pena detentiva. Negli Usa, i neopositivisti sostengono che il deviante va contenuto in carcere con una lunga privazione della libertà personale; ma questo atteggiamento lede la dignità umana del ristretto, che, nella maggior parte dei casi, è perfettamente recuperabile e non è vittima passiva di una struttura sociale malata. Di nuovo, si confonde il “condizionamento” con la privazione della capacità di scegliere tra legalità e illegalità.
Gli eccessi della Scuola di Chicago e la teoria delle “associazioni differenziali”
Nella prima metà del Novecento, la Scuola di Chicago ha sposato l’atteggiamento oltranzista del neopositivismo, affermando che il “gruppo sociale” è l’unico responsabile delle devianze antinormative. Ovverosia, se, in un determinato quartiere prevale una notevole delittuosità, ciò sarebbe imputabile non ai singoli, bensì al tessuto collettivo disfunzionale.
Tuttavia, perlomeno sotto il profilo statistico, il filone interpretativo qui in esame ha avuto il merito di rilevare che nelle società rurali prenovecentesche sussistevano tipologie di controllo sociale informale idonee a svolgere una funzione comunitaria di protezione dalle spinte delinquenziali. In effetti, è un dato di fatto che, nelle civiltà agricole, la scuola, la famiglia e il gruppo religioso di riferimento mettevano in atto una serie di misure preventive che diminuivano l’incidenza generale della criminalità.
Sempre negli Usa, la teoria delle associazioni differenziali postulava che, in tutte le società sono presenti associazioni criminogene che inducono al compimento di azioni delittuose contrastanti con il sistema legale seguito dalla maggioranza dei consociati. Per esempio, è “associazione differenziale” la famiglia di scassinatori che tramanda le tecniche dello scasso di padre in figlio. Lo stesso vale per la tipica famiglia rom in cui la madre insegna il borseggio alla figlia. D’altra parte, è innegabile che molte famiglie, anche negli anni Duemila, adottano e veicolano alla prole un’educazione criminogena.
La teoria della “struttura sociale anomica”
Secondo il filone esegetico socio-criminologico della teoria della “struttura sociale anomica”, la delinquenza dipende dal livello di “anomia”, ossia di “disordine” del gruppo o della zona sociale di riferimento. Per esempio, vi sono quartieri degradati nei quali il crimine domina non a causa del basso reddito pro capite, ma per la mancanza di un forte substrato etico-valoriale in grado di unificare la società.
Questo fenomeno di nascita della devianza si vede molto bene nella Francia degli ultimi decenni, ove il dominio delle sottoculture minoritarie (tra cui l’islam) provoca un rifiuto del gruppo nei confronti delle regole della civiltà e dei principi nazionali prevalenti. Si badi bene che il problema non è tanto la diseguaglianza economica, quanto, piuttosto, l’incontro-scontro tra modelli sociali. Questo vale, ad esempio, nelle comunità mussulmane, che rigettano il modo occidentale di concepire il ruolo della donna e della famiglia (leggi pure I reati “culturalmente motivati” dello straniero).
Qual è la via d’uscita dal determinismo esasperato in tema di devianza?
Bisogna trovare il coraggio di abbandonare quegli schemi interpretativi che negano la libera autodeterminazione finale dei comportamenti individuali. Senza dubbio, le varie scuole positivistiche hanno avuto il merito di svelare il potenziale criminogeno dell’anomia, ma tale osservazione non deve spingersi sino al punto di presentare il responsabile di un reato alla stregua di un burattino senza anima guidato da un “gruppo sociale” antigiuridico.
Ciononostante, è comunque dovere del Magistrato attenuare il grado di colpa dell’infrattore qualora egli provenga, senza averlo voluto, da una “associazione differenziale”. Del pari, anche il trattamento penitenziario dovrà adeguarsi alla “mal-educazione” ricevuta dal reo durante la propria formazione socioculturale (vedi anche Legge e giustizialismo populista).
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Andrea Baiguera Altieri
(Pensieri divergenti. Libero blog indipendente e non allineato)
















