Dolceamaro il romanzo “Una vita bizzarra” (Città del Sole Edizioni) di Elisabetta Villaggio, un affresco dei movimenti studenteschi degli anni Settanta: non erano tutte rose e fiori…
Roma. Dopo molti anni di lontananza, Rosa sta attendendo di incontrare Elisabetta, sua “amica del cuore” negli anni Settanta romani dei movimenti giovanili. Infatti, grazie a facebook, è riuscita a contattarla e a fissare un appuntamento con lei. Come sarà cambiata? Incontrandosi dopo tanto tempo, cosa proveranno le due adolescenti, divenute donne?: «Benedetta era uno specchio per me. Ma cosa avrebbe riflettuto? Le ansie e le paure che la vita ti costringe ad avere? Quell’incontro avrebbe tirato fuori i mostri del passato oppure, dopo una chiacchierata noiosa fatta di parole vuote, ci saremmo salutate con indifferenza?».
Questa la situazione narrativa iniziale del romanzo Una vita bizzarra (Prefazione di Paolo Villaggio, Città del Sole Edizioni, pp. 240, € 12,00) di Elisabetta Villaggio, che abbiamo avuto il piacere di presentare a Bologna qualche giorno fa (vedi Erano i “formidabili” anni Settanta). Quasi un espediente per riportare appunto alla luce quegli anni, con una rievocazione memorialistica. Infatti, nell’attesa, la protagonista rievoca gli anni della scuola, del liceo, delle manifestazioni di piazza. Una recherche che permette un affresco completo (quasi un’enciclopedia, un centone) di un periodo storico, inizialmente fresco, eccitante ed esaltante, entro un’atmosfera effervescente, entusiasmante, libertaria.
Ed ecco rivivere usi, costumi, mode: i dischi rock, i libri e i film cult, gli amori, i personaggi “fricchettoni”, gli amori giovanili, i viaggi in autostop senza una lira in tasca, il femminismo, spinelli, eskimo, patchouli e borse di Tolfa (se vogliamo, una sorta di conformismo dell’anticonformismo). «Era una sensazione di libertà totale», scrive giustamente l’autrice. E, ancora: «Eravamo sicuri che avremmo potuto cambiare il mondo con le nostre idee. Eravamo pieni di ideali, eravamo liberi, giovani con la vita tutta davanti, tanti amici, la sensazione di avere il controllo del mondo e delle nostre vite. Ci sentivamo grandi. Nello stesso tempo tutto era una scoperta».
Tuttavia, entro questo quadro apparentemente luminoso, si inseriranno tragiche oscurità, come lascia presagire la stessa Villaggio: «Eravamo adolescenti, la stagione in cui dovresti pensare solo ai primi amori romantici. Invece ci trovavamo in una realtà più grande di noi. La tensione era alle stelle. Ogni volta che tornavamo a casa, soprattutto di sera, avevamo paura di essere aggrediti e picchiati. Ragazzi sia di destra che di sinistra subivano cose assurde. Spesso i miei sogni erano degli incubi e mi svegliavo di soprassalto con la sensazione di essere inseguita e di non riuscire a correre o urlare».
La sordità dello Stato, che autorizza le forze dell’ordine a rispondere con una violenza brutale, sproporzionata e spropositata (vedi anche Italiani, popolo di volontari e contestatori…), gli estremismi e il terrorismo, le fragilità individuali e famigliari… Il mondo al principio luccicante si rivela fragile, immaturo, estremista, contraddittorio (ad esempio, i belli, ricchi e colti sono “di sinistra”, mentre i “brutti, sporchi e cattivi”, per la “liberazione” dei quali i primi “lottano”, si schierano spesso coi neofascisti). E, alla fine, quella realtà si rileva portatrice di derive esistenziali, perse dietro viaggi in Oriente o tristi solitudini metropolitane sparse per il mondo e, con l’ampia diffusione delle “droghe pesanti”, anche portatrice di morte. L’utopia, come sempre, si tramuta in distopia. Lasciamo al lettore la scoperta di vedere quale soluzione scelga la Villaggio per riannodare i fili narrativi ed esistenziali del romanzo, e di giudicare il finale del libro più o meno plausibile.
Le immagini: La copertina di Una vita bizzarra e un momento della “presentazione bolognese”.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno IX, n. 99, marzo 2014)