Una riflessione sul sistema delle coop. Le denunce di Caprotti e Amorosi e l’inchiesta giudiziaria che a Bologna fa tremare il Partito democratico locale. Quali sono gli scenari di un’attività economica che, ingarbugliatasi in giochi di potere, sfrutta solo l’antica suggestione di un modello e di valori dai quali si è molto discostata? Ma è tutto da buttare?
Scorrendo l’elenco delle prime dieci imprese di Bologna e provincia, sulla base del fatturato del 2014, sei sono società cooperative. Queste sono numerosissime anche nelle posizioni più basse della classifica, il che può far considerare questo modello come vincente, specie in un panorama economico difficile come quello attuale. Al pari del successo della grande cooperazione, però, sono ormai visibili anche gli aspetti meno nobili alle origini di tale affermazione.
Risale a poche settimane fa la morte di Bernardo Caprotti, padre della catena di supermercati Esselunga, la cui vita professionale fu in buona parte scandita dagli scontri con la grande distribuzione alimentare targata Coop, e a pochi mesi dalla pubblicazione del libro-inchiesta di Antonio Amorosi, Coop connection (Chiarelettere, Roma, 2016, pp. 290, € 16,90), che dell’intero mondo cooperativo denuncia gli innumerevoli vizi. Dalle loro testimonianze emerge il lato ben poco onorevole del citato modello economico, basato su un’articolazione su vastissima scala, che conserva mutualismo e solidarietà soltanto come foglia di fico. La fetta principale dei proventi delle grandi coop, infatti, non è derivata dalla vendita di beni e servizi, ma da abili investimenti del capitale accumulato attraverso i prestiti sociali concessi da cittadini e consumatori che, convinti di evitare le trappole delle banche, finiscono per immettere denaro in un circuito spesso ancor più incontrollato e a rischio di quello degli istituti di credito tradizionali. In questo ambito intrecci e favori politici, sfruttamenti salariali e speculazioni finanziarie divengono irrinunciabili fino a rischiare di sconfinare nell’illegalità, come mostrato in molte parti del testo di Amorosi (vedi Cooperative dalle mani sporche).
È notizia recente la conclusione delle indagini preliminari a carico di alcuni esponenti apicali di Legacoop e del Partito democratico bolognese, nell’ambito della vicenda della cosiddetta “colata di Idice”. Solo al termine del procedimento sapremo se le pressioni subite dal sindaco di San Lazzaro di Savena, Isabella Conti – oppostasi a una grande opera di cementificazione appannaggio dei soliti noti colossi dell’edilizia cooperativa – costituiranno o meno reato. Fin da ora possiamo però inquadrare tale episodio all’interno di una prassi diffusa, che poggia su un legame malsano con la politica – spesso quella locale, perché in grado di fornire i grimaldelli necessari per assicurarsi ogni genere di appalto. Nonostante i tentativi di censura, Falce e carrello. Le mani sulla spesa degli italiani (Prefazione di Geminello Alvi, Marsilio, Venezia, 2007, pp. 188, € 16,00), il “libro-sfogo” di Caprotti, ridivenuto best seller in questi giorni, dopo la scomparsa dell’autore, può ancora fornirci eclatanti esempi in merito.
Fare business in modo disinvolto è parte integrante della formula per il successo delle grandi cooperative, ma è da ricordare come esso riguardi più loro che il Paese nel complesso. Come, infatti, ha ricordato Oscar Giannino lo scorso maggio, in occasione della presentazione di Coop connection a Bologna, in Italia stiamo assistendo non solo alla perdita di produttività del lavoro ma anche del capitale, e le coop hanno contribuito a tale fenomeno da vincenti. Aggredendo la concorrenza, spesso dei piccoli, esse sono sempre più riuscite ad azzerarla o a fagocitarla, forti delle licenze e dei vantaggi di cui godevano. Nonostante ciò, il reale stato finanziario molte società cooperative desta dubbi, essendo a volte alcune di loro fortemente indebitate e presentando un rapporto prestito/patrimonio poco lusinghiero. Da qui il circolo vizioso per cui esse devono trarre forza da posizioni di semimonopolio e risulta necessario l’utilizzo di furbizie varie (conflitti di interesse, fallimenti strategici, scatole cinesi per dissimulare plusvalenze ed evitare controlli, ecc.).
Quanto detto non ci autorizza però a gettare tutto alle ortiche. Recuperare il valore autentico della cooperazione aiuterebbe ad ampliare la polifonia di forze e modelli essenziale alla sopravvivenza della nostra economia. L’interesse nazionale, poi, più di quello particolare, avrebbe dovuto guidare alcune scelte. Una mancata occasione persa tra le tante? La parziale tregua tra Coop ed Esselunga per ipotizzare congiunti investimenti all’estero. Chissà, forse ciò avrebbe prodotto risultati più “sani” di quelli che abbiamo finora visto in Italia.
Le immagini: in apertura, Falce e carrello; quindi, all’interno dell’articolo, il logo del titolo del libro-inchiesta di Antonio Amorosi, Coop connection, e una foto dell’imprenditore Bernardo Caprotti, recentemente scomparso.
Christian Corsi
(LucidaMente, anno XI, n. 131, novembre 2016)