In esclusiva per “LucidaMente”, un racconto inedito del noto scrittore, che racchiude in sé le caratteristiche dell’intrattenimento più puro per chi ama la lettura: vivacità, ironia, dolcezza, crudeltà. E la vanità descritta fa riflettere, nell’ottica di quella che è l’esistenza umana
«Una scherzosa allegoria della realtà». Così definisce il proprio racconto lo scrittore, critico e giornalista Sergio Sozi, già ospitato su LucidaMente (vedi Il degrado della letteratura odierna, secondo Sergio Sozi; «Vado a cercare il dio ignoto»; In Slovenia gli artisti resistono; Scrittori o prostitute? Editori italiani, vil razza dannata; «Il brivido della parola scritta spadroneggia sul mio corpo»).
Ora impreziosisce il numero di dicembre della nostra rivista, offrendo un regalo di Natale ai suoi lettori con Corri, caro!, una vivacissima storia nella quale trovano spazio le vicende di persone materialmente ricche, narrate dalla voce ingenua e pulita di una protagonista davvero originale, e ambientate in un mare che è simbolo sia di sfarzo che di disperazione. Un’avventura imprevedibile e dalle svariate sfumature, che si rivelerà drammatica, divenendo emblema della (vera) povertà in cui si rischia di cadere se si perdono di vista valori e senso dell’esistenza. Peculiarità, questa, tipicamente umana: dell’unico essere cioè che, in teoria, possiede la ragione. E che spesso dimentica di non essere immortale.Uffa! Qui non se ne può più! Quando diamine intende arrivare a destinazione, questo? Non è per insolenza, cattiveria o pigrizia che mi lamento: direi un semplice diritto di sfogo; come quello che è permesso agli animali.
E chi li capisce gli animali, mi contesterete: li intendono solo, e neanche sempre, gli studiosi di etologia, la scienza con la quale si cerca di tradurre i loro comportamenti e versi vari; invece per noi comuni mortali, direte, se una gatta emette uno gneeeee può significare che è in calore, stanca, arrabbiata o che ha sonno. Anche fame, forse. Va be’, contestatemi pure con tali motivazioni o anche con altre. Io mi lamento uguale. Una citazione, e questo piccolo piacere me lo concederete più volentieri: «Mi sono sprofondato in questi tempi nelle opere di Jagadish Chandra Bose. Voi sapete certo chi è Bose: il più grande scienziato dell’India e uno dei più grandi biologi dei nostri tempi. Egli ha fatto una scoperta immensa: che anche le piante e i minerali hanno un’anima».
Questo era un italiano, Giovanni Papini, a scriverlo nel 1931 in Gog, una sua opera considerata minore. L’affermazione, per niente ironica, era messa in bocca a un personaggio che ci credeva, un tizio di nazionalità spagnola chiamato Ramon. Ma non penso sia necessario andarsi a leggere l’intero scritto, poiché basterebbe che alzaste lo sguardo per capire le stesse cose. Fatelo, vi prego.
Ecco. Bravi. Ora però non attenderò che superiate lo stupore nell’aver constatato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che a parlare sia proprio una barca. Una barca di tredici metri guidata da una specie di capitano, poiché in testa il tipo, ben rasato e sulla cinquantina andante, porta il berretto bianco e azzurro, anche se addosso non si è degnato di mettere nemmeno uno straccio di uniforme. Sta in costume da bagno nero, già. Bella fantasia; complimenti, capo. E mentre sta facendomi navigare come un ebreo errante ubriaco in mezzo al mar Mediterraneo – verso dove esattamente non saprei dire – lui, il mezzo capitano, beve. Champagne Moët chandon, per l’esattezza. E, anche, fuma. Ad esser certosini, una Camel. Inoltre parla.
Tutto sommato niente di nuovo, per me, eccetto quanto sto per dichiarare, sicura come sono che lui, l’umano, non possa udire la mia voce. Ecco. Scusatemi per la sincerità, ma io non so perché quella sottospecie di marinaio che mi manda a destra e a manca sotto il sole d’agosto abbia, ora, tutta questa voglia di parlare, visto che sin da quando mi acquistò (nuova di cantiere navale tre anni fa) l’avrò sentito chiacchierare per oltre trenta secondi di séguito sì e no tre, quattro volte. E ciò mi è giusto servito per sapere che lui, l’uomo chiamato Corradino o Corri caro, è un dottore e oltre alla sottoscritta barca (anzi, scusate, ma sarei immatricolata come motoscafo superlusso) ha in proprietà anche una cosiddetta industria siderurgica con duecentoventitré nullafacenti, che ogni mattina timbrano il cartellino per derubare legalmente i padroni grazie all’efficace e perenne tutela del sindacato; ed è sempre arrabbiato con una donna di nome Paola, Paolona, Paoletta oppure solo Tetta ah ah – cosa strana, anzi anacronistica questa sua rabbia, direi, poiché quella donna non la vedo qui con lui.
Una volta Corri caro, guardando con occhi biechi un modesto anello d’oro che portava al dito, gli aveva enigmaticamente detto col pensiero: «Dopotutto ho fatto bene a sposarti, Paolona troiona, almeno m’hai dovuto mollare l’azienda di famiglia»; poi, levando d’improvviso gli occhi dall’anello al cielo estivo Corri caro aveva dato uno strano urletto, siccome stava tutto ignudo in compagnia di una magnifica donna bionda sulla trentina, anzi i due s’erano proprio incollati, perciò doveva esser successo qualcosa di doloroso proprio in quel momento. Ansimavano, poveretti. Lei subito dopo, ancor più misteriosamente, gli aveva sussurrato: «Lasciala, no? Che aspetti?». E l’uomo di getto: «Tu sarai pazza, Anna: a nome mio ho solo ’sto guscio, mica torno a fare la fame come quando montavo carburatori alla Piaggio». E la bellona chiamata Anna, convinta: «Appena il professor Guidi crepa, la sua cattedra sarà mia per suo preciso volere, lo sai no, Corri caro. È molto malato e più di un paio d’anni non campa di sicuro. Con il mio stipendio di docente universitaria vivremo da re». Al che lui, sorridendo: «Antropologia culturale… Mah… Perché stentare? Sono quasi riuscito a convincere sua sorella a farle firmare una polizza sulla vita. Due milioni se crepa d’incidente o evento naturale… Dico, Anna, non ti ricordi…».
La bionda a quel punto gli aveva schiaffeggiato con vigore la faccia bronzea due volte: «Te la sei fatta eh, la cognatina! Ecco la tua arma di convinzione, porco!». E Corri caro, sicuro: «Era indispensabile ungere la sorella. Nessun godimento, ché sembra una giraffa. E ascolta: io il barbone immigrato a Milano come i miei, che si facevano prendere a calci in culo anche dai più deficienti di lombardi perché venivano dalla Calabria (e giustamente se ne vergognavano) non vado a farlo di certo. Mi son del Nord, mica cazzi! Tant’è che, vedi: appena ebbi diciott’anni, per tagliare i ponti con la gente del quartiere che sfotteva tanto… “e la Terronia su e la Cafonia giù”… scesi in Toscania a far vedere come lavoriamo noi del Settentrione… Casa nuova, vita nuova. Ma pure lì ero sempre un morto di fame di operaio della Piaggio, anche se bello, pulito e milanese, eh, cara. Non bastava mica, no?».
E lei, ironica: «Già, e ormai sei a fine carriera: aspetti l’investitura nobiliare facendo la pelle alla tua mogliettina». Lui, compiaciuto: «Macché investitura: investimento economico, piuttosto». Lei, allegra: «E di libretti solo quello degli assegni al portatore, povero cocco figlio di immigrati, lui». E lui, stabile: «Senti il sarcasmo di questa qui… uè, cocca bella intellettuale, qui le chiacchiere stanno a zero. Io dopodomani porto la Paola a sottoscrivere quella assicurazione e fra undici mesi e dieci giorni esatti esatti, quando torna l’estate, ti faccio portare mia moglie (come avevamo concordato, ricordi?) su questo yacht in gita. Vi fate due giorni in santa pace al largo, poi attraccate a Lampedusa, dove io sarò già sotto falso nome e truccato anche in faccia. La notte dopo, in piena notte dico, mica alle undici, esco dall’albergo, mi maschero da negro per confondermi con quelli lì che dormono dovunque, prendo un canotto, ci carico sute, sciolgo gli ormeggi dello yacht con lei che ci dorme da sola, faccio un bel foro (tipo urto contro scoglio affiorante) sullo scafo e ciao ciao: vai al largo, carissima. Qualche mese ancora e vedrai come staremo bene. Dovrai solo ricordarti di darle il sonnifero, prima di tutto l’ambaradan, così non sentirà niente… Neanche la sofferenza… Questo piano era il tuo… o ricordo male?».
Undici mesi e dieci giorni dopo quelle parole, in effetti, naufragavo dolorosamente con la sullodata Paola. Io urlavo senza, lei con una voce davvero acuta, che metteva i brividi persino a me che in fondo son di legno, metallo, plastica e vernice. Capiamoci: tutta roba mica insensibile, questa, eh… Lei però ha sofferto di più, perché la carne dei mammiferi è delicatissima e per giunta gli umani, quando la vita sfugge loro via, non è più possibile (come succede a noi oggetti) resuscitarli semplicemente riparandoli. Pochi giorni dopo mi avevano recuperato al largo di quell’isola, Lampedusa, tirandomi su dal fondo (restante per fortuna a non più di dieci metri dalla superficie) in condizioni non proprio ottimali. Una cura intensiva di calatafataggio, sostituzione di organi… Ehm, intendo tavole, lastre di plastica e acciaio, parti varie eccetera, ed eccomi restituita al solito Corri caro.
Dunque, torniamo a noi. Certo: di solito mi guida in perfetta solitudine, perciò di occasioni per sfrenare la lingua ce ne sono oggettivamente poche, se non capita una tempesta o un uragano, qualche bell’assalto piratesco o altro, così che fa bestemmiare e soliloquiare… Privilegi che finora lui non ha mai avuto. Anzi, che io non ho avuto mai. Allora immagino che adesso gli si sarà sciolta la favella perché gli sta di fianco una bella figliola. Che non è quella Anna del colloquio, no, no. Questa ha la pelle scura, quasi nera e non parla l’italiano né troppo bene l’inglese, solo discretamente il francese ma in modo eccellente l’arabo classico, quello del Corano. Neanche questa è la sua lingua madre, ma una che comunque lei padroneggia. Però ora, con Corri caro questo arabone le serve a poco: l’uomo dice massimo tre diverse parole in fila tipo esperanto, anche se spesso. E la fa ridere perché lei sta pensando: “Sembra un analfabeta questo arrapatone, peccato, proprio peccato”. Sì, questo sta pensando la donna dall’incarnato scuro mentre osserva il di lui Rolex, il portafoglio pieno, la catenazza d’oro massiccio che porta al collo; e beve con l’europeo, lei, emettendo sorrisini forzati, entrambi fumando pure su di me. E io, barca, intanto che loro si fanno i complimenti con l’aria di sapere dove voler arrivare, io, ecco, aggiungo: «Un “ignorante europeo”, intendeva forse dire la ragazza?». Sì, certo, confermo: come tutti quanti, oggi: un homo ignorans novimillenarius. O forse, invece, lo è sempre stato nei secoli dei secoli?
Difficile prendere una posizione… Ma, per fortuna, io sono una barca e mi barcameno, no? Eh, si fa presto a dire che siamo un branco di cinici gretti e avidi materialisti da quattro soldi, travestiti da raffinati uomini di cultura. Ecco: filosofi messi al bando, libri sfottuti perché troppo difficili, grammatiche da distruggere, tradizioni culturali da sotterrare, cristianesimo preso in giro; sì, è tutto vero, verissimo! Ma, in fondo, uomini e natanti, siamo sempre noi. Ovverosia anche noi quelli di prima che creavano la musica classica, il teatro, l’arte grecoromana, la politica, la religione politeistica, e i noi ionici che condividevamo, pur senza saperlo, il capolavoro spirituale dei grandi neri animisti chiamandolo ilozoismo e credendo che fosse farina del nostro sacco.
E loro due bevono insieme. Ma… Che fai? Ti sei portata, seminuda, alle spalle dell’uomo: lui sta dicendo: «Paolona, mia moglie… Scomparendo all’orizzonte… Mi ha lasciato tutto, l’ingenua… Una bella, grossa, solida eredità… Culturale… Ah! Ah! Scherzo, eh… Poverina: tradizionalista e piena di sé, lei…». La donna intanto ha sfoderato un oggetto lucente. Glielo ha alzato a mezzo metro circa dalla schiena. Tace, lei. Infuocata sotto il sole al tramonto. Ghiaccio che scotta senza sciogliersi. Greve poesia. Mito fondante e di sangue. Terribile. Cosmica. Rude. Giovane. Tutte cose che non sa di essere. Sa solo che è straniera. Ed estranea. Implacabile, infine, mentre cala l’arma con la potenza dell’istinto di sopravvivenza della carne, dello spirito e della (sua) tradizione. Va be’. Mi dispiace un po’ per com’è finita. A poterlo avvisare gli avrei detto: «Corri, caro!».
Sergio Sozi
(LM MAGAZINE n. 29, 16 dicembre 2016, Speciale Eventi culturali, supplemento a LucidaMente, anno XI, n. 132, dicembre 2016, editing e formattazione del testo a cura di Maria Daniela Zavaroni)
Attuale, coinvolgente, stupendo!
Molte grazie.
Gradito il racconto che mi era stato consigliato. Ho letto articoli e “Diorama” di questo autore superlativo. Gradisco anche la sua risposta al commento di Saverio, priva di punti esclamativi, maiuscole, autocompiacimento, autocomplimenti, spiegazioni e giustificazioni. Ringrazia in uno spazio per commenti che si frequenta rivolgendosi a chi lo legge, lettori, responsabili della rivista, magari anche l’autore.
La qualità originale del testo esprime da sola un maiuscolo rispetto per il lettore (“Lettore”? “Gentilissimissimissimo Lettore!”?).
Per Woody Allen usare punti esclamativi è come ridere delle proprie battute, figuriamoci che cautela richiedono le maiuscole. Nei commenti, perdonatemi, … ovvia!
Condividendo – ma ovviamente solo per quanto riguarda gli interventi pubblici internettiani – l’approccio estremamente cauto su maiuscole e segni grafici vari di Samuele, lo ringrazio sentitamente per il gradimento.
In margine, aggiungerei solo una cosetta, che forse si commenterà da sola: ho altri sei volumi pronti di racconti inediti e altrettanti romanzi inediti che non riesco a pubblicare. Escludendo a priori il “proprie spese”, ovviamente. Gli editori sono imprenditori ed io loro “dipendente”, pertanto non tolgo loro il gusto di remunerare il mio lavoro, per quanto modesto…