«Una donna brutta non ha a disposizione nessun punto di vista superiore da cui poter raccontare la propria storia. Nessuna razionalità intatta con cui analizzarla. Non c’è prospettiva d’insieme. Non c’è oggettività. La si racconta dall’angolo in cui la vita ci ha strette, attraverso la fessura che la paura e la vergogna ci lasciano aperta giusto per respirare, giusto per non morire. Una donna brutta non sa dire i propri desideri. Conosce solo quelli che può permettersi. Sinceramente non sa se un vestito rosso carminio, attillato, con il decollété bordato di velluto, le piacerebbe più di quello blu, elegante e del tutto anonimo che usa di solito quando va a teatro e sceglie sempre l’ultima fila e arriva all’ultimo minuto, appena prima che le luci si spengano, e sempre d’inverno perché il cappello e la sciarpa la nascondono meglio. Non sa nemmeno se le piacerebbe mangiare al ristorante o andare allo stadio o fare il cammino di Santiago di Compostela o nuotare in piscina o al mare. Il possibile di una donna brutta è così ristretto da strizzare il desiderio. Perché non si tratta solo di tenere conto della stagione, del tempo, del denaro come per tutti, si tratta di esistere sempre in punta di piedi, sul ciglio estremo del mondo. Io sono brutta. Proprio brutta. Non sono storpia, per cui non faccio nemmeno pietà. Ho tutti i pezzi al loro posto, però appena più in là, o più corti, o più lunghi, o più grandi di quello che ci si aspetta. Non ha senso l’elenco: non rende. Qualche volta, quando voglio farmi male, mi metto davanti allo specchio e passo in rassegna qualcuno di questi pezzi: i capelli neri ispidi come certe bambole di una volta, l’alluce camuso che con l’età si è piegato a virgola, la bocca sottile che pende a sinistra in un ghigno triste ogni volta che tento un sorriso. E poi sento gli odori. Tutti gli odori, come gli animali. Io sono nata così. Bello come un bambino, si dice. E invece no. Sono un’offesa alla specie e soprattutto al mio genere: “Fosse almeno un uomo” sussurra un giorno mia madre a non si sa chi sorprendendomi alle spalle».
(da Mariapia Veladiano, La vita accanto, Torino, Einaudi, 2011)
Così Mariapia Veladiano introduce la sua protagonista Rebecca nella sua opera prima, La vita accanto, romanzo vincitore del Premio Calvino 2010 dedicato a scrittori esordienti e quindi pubblicato ora da Einaudi (pp. 172, euro 16,00). Quanto un aspetto fisico sgradevole può condizionare le nostre vite, specie nell’era dell’immagine? Questo uno dei temi, ma non certo l’unico, di un romanzo che è soprattutto dramma della famiglia e degli affetti, in una provincia ipocrita e pettegola.
Ed è la storia di passione e di riscatto di Rebecca, che, accompagnata dai pochi veri affetti, in particolare l’affettuosa governante Maddalena e la grassa e vivace amica Lucilla, e soprattutto grazie al talento per la musica, troverà il coraggio di cercare la verità su se stessa e sulla sua famiglia, di capire e perdonare. È un libro dallo stile semplice ed elegante, profondo e a tratti feroce nei contenuti. Attuale e al tempo stesso di tematica universale.
Mariapia Veladiano ha 50 anni, è vicentina, laureata in filosofia e teologia ed insegnante di lettere. Appare subito come una donna forte e intelligente, oltre che nient’affatto brutta, a riprova che il suo libro non è autobiografico. Le abbiamo chiesto quindi da dove “viene” la sua Rebecca.
E questa la risposta dell’autrice: «Rebecca raccoglie il senso di tremenda inadeguatezza che attraversa sempre più persone oggi. La sua è una vita d’angolo simile a tante vite d’angolo. Lei è brutta, altri sono poveri, o di nazionalità sbagliata, o provenienti da famiglie sbagliate. Lei vive l’esperienza devastante di non essere accolta e accettata dalla società e addirittura dalla famiglia. Il mondo intorno a lei si chiude e si trasforma e lei pensa che sia a causa del suo aspetto. Scopre poi che la realtà è più complessa e che a essere brutto è il mondo intorno che non sa accogliere la vita in tutti i suoi aspetti. Perché brutta? Perché oggi il pregiudizio estetico è tremendo e consuma i desideri delle persone, specialmente delle ragazze – io insegno – in un’attesa senza possibilità di realizzazione di una vita fatta di apparenza e successo. Sembra l’apparire la garanzia dell’essere oggi e questo è tremendo. Soprattutto perché il modello di bellezza proposto passa attraverso la pubblicità e gli scandali: bellezza costruita, passata, un istante prima di essere fissata nelle foto, dall’estetista, dal parrucchiere, dal truccatore, e poi c’è Photoshop, se rimane qualcosa da aggiustare. Si dimentica che la bellezza è la pienezza del nostro essere, va coltivata, è sostenuta dalle relazioni e dagli affetti. Così è nata Rebecca, un po’ dall’esperienza a scuola, un po’ dall’osservazione».
L’immagine: la copertina de La vita accanto.
Viviana Viviani
(LM EXTRA n. 23, 14 febbraio 2011, supplemento a LucidaMente, anno VI, n. 62, febbraio 2011)