Un giovane ingegnere del più grande popolo senza stato racconta la propria esperienza a “LucidaMente”
Fin dalla dissoluzione dell’Impero ottomano i curdi sono sempre rimasti ai margini della società turca. Non si sono mai riconosciuti nel kemalismo, la dottrina laico-nazionalista ispirata da Mustafa Kemal Atatürk, sia perché la loro distribuzione geografica è sempre stata distante dai centri di potere, sia perché non hanno mai subito un influsso “ottomanizzante”. Paradossalmente, rispetto ai curdi, si sentivano più ottomani gli islamici dei Balcani.
Distanti dal resto del paese, popolano le zone più aspre e difficili dell’Anatolia sud-orientale. La ferrovia li raggiunse negli anni Trenta del Novecento, mentre l’autostrada solo negli anni Cinquanta. Da sempre poveri, la disparità col resto del Paese si acuì ulteriormente dopo gli anni Ottanta, quando l’allora primo ministro Turgut Özal lanciò la Turchia nel mercato globale. Mentre l’economia decollava nel resto del paese, l’isolamento e la natura aspra del territorio non permise al popolo curdo di stare al passo. Da tali premessederivò un forte sentimento di rivalsa sociale, che si concretizzò poi nella creazione del partito paramilitare Partîya Karkerén Kurdîstan (Partito dei lavoratori del Kurdistan), attualmente considerato organizzazione terroristica da Turchia, Stati Uniti, Nato, Unione europea.
Fra lo stato turco e il Pkk è tuttora in corso una vera e propria guerra civile che ha portato alla morte di oltre 36.000 persone, la maggior parte delle quali di etnia curda (vedi anche I “peshmerga”, guerrieri della libertà). Che cosa significa oggi, per un curdo, vivere in Turchia? Lo abbiamo chiesto a un giovane di tale etnia, residente a Istanbul, il quale, per ovvie ragioni di sicurezza, ha preferito non fosse rivelato il suo nome.
Grazie per la sua preziosa testimonianza. Vuole presentarsi ai nostri lettori?«Ho 24 anni, sono nato a Diyarbakır, la più grande roccaforte curda. Al momento vivo a Istanbul, dove nel 2011 mi sono trasferito per studiare. Frequento un master in Ingegneria geotecnica all’Università Boğaziçi e lavoro per una società come ingegnere addetto alla progettazione e al controllo».
È stato facile trovare lavoro?«No, affatto. Ho impiegato dei mesi per trovarne uno dopo la laurea. Sognavo di completare i miei studi all’estero, frequentando un master in Europa o in Canada, e per questo avrei dovuto mettere da parte dei soldi. Alla fine mi sono scoraggiato e ho ricominciato a studiare alla Boğaziçi. Eppure la mia università è una delle migliori della Turchia; entrarvi è molto difficile, in pochi hanno i requisiti adatti. Inoltre, parlo fluentemente quattro lingue: curdo, turco, russo e inglese. Ho fatto il tirocinio a Mosca e mi sono laureato con il massimo dei voti».
Con questo curriculum, cosa pensa che l’abbia ostacolato nella ricerca?«Senza dubbio la mia provenienza e la mia etnia. Le racconto un esempio pratico. Sono stato invitato da un’azienda per un colloquio di lavoro. Mi hanno chiesto per prima cosa da dove venissi e, dopo che ho risposto Diyarbakır, hanno iniziato a mettermi all’angolo, a farmi domande di politica. Sono un ingegnere civile, il lavoro per cui facevo richiesta era da ingegnere civile, ma hanno continuato a chiedermi solo delle mie idee politiche. Alla fine mi è stato detto che non ero idoneo perché provenivo dal posto sbagliato. Diverso tempo dopo, quando avevo perso le speranze, ho incontrato una donna che mi ha aiutato. I suoi vicini provenivano dalla mia zona, e mi ha messo in contatto con la società per la quale attualmente lavoro. Chi ha approvato la mia candidatura era un curdo».
Ha trovato difficoltà solo a livello lavorativo?«No, non solo. È impossibile “mimetizzarsi”: dall’accento si capisce immediatamente l’etnia. Il curdo è una lingua indoeuropea, le sonorità sono completamente diverse rispetto a quelle della lingua turca, che appartiene al ceppo delle lingue turciche. Quindi, quando ti sentono parlare, iniziano le domande: “da dove vieni?”, “hai una pistola?”, “sei un terrorista?”. Quando va bene, vengo solo schernito. In nessuno dei paesi nei quali sono stato mi è mai capitato di essere insultato allo stesso modo per come mi esprimo nella loro lingua. Anche per questo è stato molto difficile ambientarsi a Istanbul».
È politicamente attivo? Segue qualche partito in particolare?«No, non particolarmente. Ad ogni modo mi tengo aggiornato e preservo la mia identità culturale. Esiste un solo partito politico che al momento lavora per preservare i diritti dei curdi, l’Halkların Demokratik Partisi (Partito democratico del popolo), e lo sostengo. Lotta per una revisione costituzionale in funzione delle minoranze, superando la classica contrapposizione turchi/curdi tipica di altri partiti, come il Pkk».
Cosa pensa dell’attuale situazione politica turca e del discusso presidente Recep Tayyip Erdoğan [vedi La Turchia di Erdoğan, un anno per arrivare al “Sultanato”]?«Non mi piace, non mi sento al sicuro. All’inizio sembrava aperto al dialogo, ammettendo l’uso della lingua curda nei media e promuovendo una parziale amnistia. Tuttavia, ben presto la sua fazione si è rivelata essere totalitaria, teocratica ed estremamente conservatrice. Ora i diritti umani non hanno più valore; migliaia di persone sono state arrestate solo perché si sono espresse contro il regime. Nel 2015, anche per assorbire voti dal partito nazionalista Mhp (Milliyetçi Hareket Partisi), ha interrotto la tregua e messo a ferro e fuoco la provincia curda di Şirnak, uccidendo centinaia di civili innocenti, donne e bambini».
Massoud Barzani, presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno e leader del Partito democratico curdo, ha affermato durante un’intervista che i curdi sono pronti a governarsi da soli. Pensa che sia un’ipotesi azzardata?«No, sicuramente non lo è, ma la situazione è ben più complessa. La popolazione curda conta oltre 40 milioni di persone, il che fa di noi curdi il più grande popolo senza patria. Il territorio del Kurdistan è diviso fra Iraq, Iran, Turchia e Siria, e Barzani ne controlla solo una parte. Sicuramente, con l’appoggio di Stati Uniti ed Europa, penso che riuscirà nel suo intento di ottenere l’indipendenza per quell’area entro quest’anno. Ma, lasciando fuori le altre parti, ancora assoggettate, non sarà mai il vero Kurdistan».
Ludovica Merletti
(LucidaMente, anno XII, n. 140, agosto 2017)