Abbiamo già ospitato su Lucidamente (n. 38, febbraio 2009) il giovane narratore bolognese Luca Manni con un altro racconto, che, a dispetto del titolo referenziale (Anna, il prete e io), risultava delicato, poetico e caratterizzato da una malinconica, disperata ansia di libertà, scontrantesi con un ambiente bigotto e vendicativo.
Da casa a casa, Bologna-Almerìa è senz’altro più lungo, contraddistinto da uno stile complesso, nel quale predomina la tecnica del monologo interiore, rafforzato da una scelta ortografica personale (due punti al posto di tre, mancanza di maiuscole, i trattini al posto delle virgolette nei dialoghi, ecc.). Sicché, pur essendo ambientato interamente on the road, la narrazione è proiettata all’interno del narratore: i movimenti esterni appaiono quasi ovattati, provenienti da una realtà “altra” e in ogni modo vissuti attraverso i sottili palpiti interiori dell’io narrante, che appare come stranito, stordito, intontito, sbigottito, rispetto al “fuori di sé”, che sente comunque estraneo, alieno.
Il rapporto col “reale”, pertanto, appare connotato da sottili moti di attrazione/repulsione, apertura/chiusura, fiducia/sospetto, abbandono/tensione, resi ottimamente dalla sincopata, personalissima scrittura di Manni.
venerdì 17 dicembre – ore 17:00 circa. sulla soglia di casa i miei, l’uno accanto all’altra, continuano a salutarmi e a farmi raccomandazioni e auguri finché non sono al piano di sotto, nel caso non si fosse reso conto tutto il palazzo della mia partenza. è uno di quei momenti in cui sento toccato duramente il mio orgoglio di adulto e di persona indipendente. o forse sento semplicemente attaccata quella che molti dicono sia la mia posa, la corazza che mi sono costruito per chissà quale difesa, quella per cui non è dignitoso essere chiamato con appellativi affettuosi o ricevere raccomandazioni inutili (che poi inutili del tutto non sono mai) dai premurosi genitori. in realtà il vero duro non dovrebbe proprio averli dei genitori premurosi, ma per questo non posso farci niente. potrei addentrarmi nei meandri della mia mente per sviscerare la questione, ma il mio obiettivo ora è quello di raccontare il viaggio da casa a casa, da Bologna ad Almerìa, e già non è cosa da poco.
Scendo le scale con i miei due zaini nell’ormai collaudata posizione: quello grande sulle spalle e il piccolo davanti, a mo’ di bebè. per il tempo di qualche gradino, forse addirittura per un paio di pianerottoli, sento come se mi stessi scrollando di dosso il torpore in cui mi getta vivere con i miei, come se stessi abbandonando, almeno per un po’, la calda e accogliente prigione che è casa mia per lanciarmi in una nuova avventura, in cui sarò finalmente libero dai vincoli genitoriali e domestici. in realtà so perfettamente che penderà sempre sulla mia testa la condanna che mi fa desiderare in ogni situazione di trovarmi nella condizione opposta, la voglia di scappare lontano quando sto in casa e la voglia di tornare a casa, con il suo tepore, il gatto, la quiete, la pulizia, le cene in famiglia, le nottate davanti alla tv con birra e sigarette, quando sono altrove.
Insomma, la sensazione di passare da una condizione all’altra mi fornisce qualche secondo di quasi-euforia. Poi tutto torna normale. Mi incammino verso la fermata dell’autobus. Fa un freddo porco. Scende un nevischio curioso, i pezzetti bianchi che si depositano sul mio zaino anteriore sembrano quelle guarnizioni di zucchero per le torte, minuscoli bastoncini rigidi. Li soffio via.
Sono un po’ in anticipo, ma aspettare non mi pesa, quando sono in “modalità viaggio” posso stare lunghissime ore in attesa senza rompermi particolarmente le palle, certo che in piedi con due zaini addosso e soprattutto con la temperatura sotto zero la mia autonomia è decisamente inferiore. è buio, davanti ho l’edicola, una struttura chiusa, sicuramente riscaldata, e penso che i poveri giornalai nei chioschi invece devono sopportare un bel freddo, ma forse non ce ne sono più tanti… un sacco di famigliole coi bambini, si percepisce purtroppo la famigerata “atmosfera natalizia”, con la sua dilagante ipocrisia, il consumismo sfrenato che si mescola al buonismo più disgustoso, quello che serve a sciacquarsi un po’ la coscienza davanti alle tragedie del mondo. magari è una mia visione distorta, ma è quello che osservo nei giganteschi suv, nei vestiti di marca della gente, nei giocattoli tecnologici dei bambini.
L’autobus non arriva. con il passare dei minuti cresce anche l’ansia, sempre comunque sottomessa al mio sangue freddo e alla mia fredda ragione, per cui comincio a valutare eventuali opzioni per raggiungere l’aeroporto in maniera alternativa. devo prendere tre autobus e, anche se mi sembra di ricordare che le coincidenze sono abbastanza comode come orari, qua si sta andando un po’ troppo per le lunghe. Sono destinato a spazientirmi parecchio per i ritardi durante questo viaggio. alla fine il cazzo di 92 passa, salgo, timbro il biglietto e mi fermo in mezzo al corridoio in senso contrario a quello di marcia, non mi posso girare perché il mio spessore, con gli zaini, è importante, non mi sto a sedere perché devo fare solo tre fermate e non avanzo fino al centro, in cui c’è più spazio, perché non so perché. quindi mi ritrovo nella strana situazione di guardare tutti in faccia da una posizione centrale e, essendo in piedi, elevata. è come se stessi attuando un silenzioso show per gli spettatori-passeggeri. Sento le loro menti domandarsi chi io sia, dove starò andando, o da dove starò tornando, perché sono su quell’autobus che non va alla stazione né vi ritorna, se sarò uno studente che va a casa per le vacanze o, chi c’ha preso, se sto andando all’aeroporto e in che città sono diretto.
Scendo, attraverso l’incrocio, vado verso la pensilina del mio prossimo autobus. Due signori dialogano cordialmente sugli autobus stessi, sui loro tragitti, sul posto in cui vivono e quanto sia più o meno piacevole fare due passi dalla fermata a casa. arrivano due 13, il primo è carico, salgo sul secondo, facendo un cenno evidente al conducente per fargli capire che voglio salire, non sia mai che non si fermi perché c’è l’altro davanti. la via emilia è intasata, mi viene da pensare che sia perché siamo sotto le feste e per il tempo infame, sono propenso a credere che molti, vedendo cadere due “bastoncini” di nevischio, o anche solo per il freddo, decidano di prendere la macchina anche per andare dal tabaccaio sotto casa. Mi torna in mente un articolo che ho letto pochi giorni fa sul trasporto pubblico, che dovrebbe avere sempre una parte di strada privilegiata e che non costerebbe nulla al comune creare più corsie preferenziali. Evidentemente però non c’è l’interesse a farlo, lo strapotere economico e sociale delle macchine vince su tutto. Anche questo è un argomento che sviscererei volentieri ma non siamo nella sede adatta.
Non sono più tanto preoccupato per il ritardo perché nella mia testa il 13 è passato abbastanza in fretta e dovrei aver recuperato il ritardo del 92, anche se procediamo a passo d’uomo. Controllo comunque con un po’ di apprensione se all’orizzonte appare il 54, quello che finalmente dovrebbe portarmi all’aeroporto. scendo, attraverso la strada e sono alla fermata. Noto subito un ragazzo e una ragazza, spagnoli, che aspettano il mio stesso autobus, e immagino che debbano prendere anche il mio stesso aereo. Chiedono a qualcuno se è già passato il 54 (improvvisamente mi rendo conto che l’ora a cui sarebbe dovuto arrivare è già passata e provo un brivido di terrore), una signora gli spiega che non è ancora passato, lei lo sta aspettando da un po’. Ancora attesa, sempre più ansiosa, il classico ritardo di qualche minuto ormai è superato, cominciano a balenarmi nella mente mille motivi per cui non dovrebbe passare l’autobus: sciopero? Ne avrei sentito parlare. Il maltempo? Ma c’è solo un leggerissimo velo di nevischio per terra. Il traffico? Ecco, vedi, le cazzo di corsie preferenziali che non ci sono… fino a questo punto mi sono fatto i cazzi miei ascoltando i brevi scambi di battute tra la signora e i due ragazzi a proposito del ritardo dell’autobus, ma a un certo punto, dal nulla, intervengo: «Ma lei è sicura che deve ancora passare, eh?!», forse un po’ cafone, anche perché dimostro di aver ascoltato i loro discorsi. La signora, com’è normale, ha un attimo di spaesamento (“ma che vuole questo?”), ma subito mi informa, con dovizia di particolari, che prima era nel bar per non prendere freddo, poi è uscita e comunque ha sempre controllato il passare degli autobus. Mi fido senz’altro. Tutti stringiamo gli occhi per vedere in anteprima i numeri degli autobus che stanno per arrivare, la vista di falco ce l’ha il ragazzo spagnolo che anticipa sempre tutti. Intanto però del 54 nessuna traccia. Dopo esserci consultati decidiamo, su proposta della signora, di andare alla fermata successiva, dove passano altri due autobus che vanno in quella direzione, anche se non proprio all’aeroporto. Trovo conferma che gli spagnoli vanno ad alicante e scopro, dopo aver espresso i miei dubbi sui mezzi da prendere una volta là, che possono darmi un passaggio a Elche, dove dovrebbe esserci il pullman per Almerìa. In realtà la proposta del passaggio viene, quasi entusiasticamente, dalla ragazza, la quale, rivolgendosi all’amico con un «no?!» per avere la conferma della bontà della sua idea, non ottiene da lui risposta, o almeno così mi pare. Più tardi poi si rivelerà un tipo molto gentile anche lui.
Ecco che arriva proprio il 54. Lo accogliamo con espressioni di giubilo (dissimulate), i nostri nervi si distendono e mi godo questi ulteriori pochi secondi di piacere.
Nel breve tragitto imparo che la signora (ma forse è una ragazza grande) va in Sicilia, a casa, e che lo fa ogni due settimane. Inoltre mi fisso sul particolare che pronuncia il “tr” esattamente come se fosse una “c” morbida. Lo sapevo già che i siciliani parlano così (i palermitani più che altro?) ma ora è come se mi rendessi davvero conto di ‘sta cosa. In seguito, non avendo di meglio, mi tornerà in mente questo fatto e ci rifletterò più di quanto probabilmente sarebbe normale fare.
Entrati in aeroporto sono travolto dall’oblio, la mia fredda ragione ha un momento di totale black-out. Sento la ragazza spagnola che dice “22”, guardo il monitor delle partenze (senza badare che sia quello giusto), leggo “check-in 53-54” e “gate 22”. Commetto una serie di errori di valutazione, tra i quali ignorare il fatto che i due ragazzi non hanno bagagli da imbarcare, e neanche sforzandomi riesco a ricordarmi quale, tra check-in e gate, sia quello in cui andare per primo. Appunto dando per scontato che dobbiamo tutti e tre andare a fare il CHECK-IN, mi metto nelle loro mani e li seguo verso il gate 22, chiaramente dirigendomi verso la fila per passare i controlli di accesso, quelli col metal detector, per capirci. Ora non ricordo se io o il ragazzo (ma mi piace pensare di avere avuto un bagliore improvviso di lucidità), comunque quasi contemporaneamente ci accorgiamo che io non devo seguirli, loro hanno solo il bagaglio a mano, io devo prima fare il CHECK-IN. Quindi, per esclusione, devo cercare i numeri 53 e 54 tra quelli segnati in alto sopra le postazioni in cui si ritirano le valigie. Facile. ma quei maledetti numeri si fermano ben prima di quelli che vorrei vedere io e un afflato di panico mi scuote. Forse è tutta la tensione accumulata fino a ora che mi si riversa nella sfera emotiva come un’onda anomala, fatto sta che comincio a scazzarmi davvero. Tra la sfiga e le prove di emerita coglionaggine che mi ricordano quanto io sia lento ad afferrare, mi sto davvero irritando, ma sul più bello vedo un cartello che indica altri banchi check-in e la mia agitazione rifluisce causando un altro piccolo moto di piacevole distensione. Al mio banco non c’è gente e, per la propensione che ormai ho acquisito ad angosciarmi davanti a qualunque inezia, mi immagino già di essere in ritardo e di aver perso l’aereo a causa della mia inettitudine (tra l’altro è già successo, per cui so di esserne capace). Chiedo subito alla piacente hostess se sono in ritardo e mi risponde sorridendo che chiudono alle sette, ora che io suppongo essere assai prossima. invece sono le sei e mezza e non capisco perché allora non c’è nessuno in fila, ma la consapevolezza che ormai è fatta mi acquieta del tutto. Ormai, mi dico, il mio arrivo ad alicante dipende solo dall’aereo, e questa certezza mi conforta, come se in realtà non m’importasse davvero arrivare a destinazione, ma fosse vitale per il mio orgoglio che la mia sbadataggine non possa più incidere sul conseguimento dell’obiettivo. Ora mi ricordo, si fa la fila per il controllo (ma non è un check-in anche quello?), si va nella zona esclusiva per i passeggeri, si aspetta un po’, si passa l’ultimo controllo della carta d’imbarco e della carta d’identità e si sale a bordo.
Il serpentone per il controllo ai raggi-x è lunghissimo ma scorrevole. Davanti ho una ragazza che continua a guardare con apprensione non so che tabellone, girandosi verso di me ogni volta, cosa che mi crea un leggero imbarazzo. È una di quelle situazioni abbastanza frequenti in cui qualcuno che sta di fronte guarda in una direzione e viene una gran voglia di fare lo stesso ma ci si sforza di non girarsi perché magari “non sta bene”. Pensa se mi fossi girato ogni volta che questa lo faceva, magari con un’aria terrorizzata… vabbè, strippi da tossico… dietro di me nella fila ci sono due ragazzi-uomini (è quell’età intermedia poco definibile, forse anche perché ci sono dentro), parlano un po’ italiano un po’ una lingua che sembra slava ma con parole uguali all’italiano, o forse le dicono proprio in italiano… comunque sia, uno dei due mi affianca e ho la netta sensazione che voglia sopravanzarmi. Per tutta la durata della fila vivo un conflitto interiore spaventoso (aggravato dalla tipa che continua a girarsi): i miei pensieri entrano in un loop paranoico del tipo «questi slavi hanno proprio un’altra mentalità, direi proprio che sono stupidi, cazzo, che cazzo te ne frega di passarmi davanti che poi la fila si divide in altre quattro e poi bisogna aspettare ore per salire sull’aereo? I casi sono due: o sei deficiente e comunque disonesto, o è una questione di principio per cui ti senti figo a superare uno in fila e lo fai solo per diletto personale». Entrambe mi sembrano ipotesi del cazzo per cui valuto attentamente l’opzione che questo in realtà NON stia cercando di superarmi e allora inizio a lambiccarmi il cervello sul perché mi debba stare di fianco e, potendo, davanti. Il suo atteggiamento è davvero fastidioso e la mia irritazione si traduce nel cercare di mantenere la posizione senza cedere un millimetro (il tutto sempre rispettando un decoroso livello di civiltà agli occhi altrui). Mentre sono intento nella mia battaglia però mi affiora alla mente la sensazione di essere profondamente ridicolo nel fare quello che sto facendo, penso che se anche questi mi superassero non cambierebbe assolutamente nulla e mi mette a disagio sentire che invece d’istinto mi viene da lottare strenuamente per il mio posto in fila. Ci presentiamo al rush finale appaiati, siamo davanti alla hostess che chiede le carte d’imbarco, passa la ragazza che si girava, allungo la mano con il foglio e sfruttando la posizione interna brucio il mio avversario rumeno (nel frattempo ho deciso che sono rumeni). Sìì!! Mi godo la vittoria.
Riesco a fare un po’ di casino anche per sistemare la roba nelle vaschette che devono passare nel tunnel a raggi-x: ci metto un po’ a capire che quelle nella fila SOPRA sono le vaschette che stanno tornando indietro e che quindi vanno appoggiate sulla banda scorrevole della fila SOTTO. Con qualche tentennamento (bisogna togliersi la giacca, le cose dalle tasche e soprattutto tirar fuori il computer dallo zaino. Che palle. Ma la cosa peggiore è rimetterlo dentro, con tutti gli altri oggetti che hanno già preso il suo posto, e non basta spostarli, bisogna per forza toglierli…), passo indenne il controllo.
Ora le peripezie, almeno quelle dipendenti dalle mie azioni, dovrebbero essere davvero finite. Mi ricordo ancora che il mio gate è il 22 e a sto giro lo trovo senza problemi. mentre mi guardo intorno per un posto a sedere passo davanti alla ragazza spagnola seduta, ma non me ne avvedo, con la coda dell’occhio noto che questa alza un braccio e la tracolla della borsa verso di me, ma non capisco cosa voglia fare e comunque non è un gesto abbastanza plateale per convincere la mia remissività a farmi girare verso di lei. In qualche modo finalmente capisco che è lei, le chiedo qualcosa di assolutamente stupido tipo «com’è andata?» e la sua espressione sottolinea quanto insulsa sia la mia domanda. Intanto guardo la sedia di fianco a lei, con atteggiamento talmente goffo (almeno così mi sento) che è come se stessi dicendo ad alta voce: «Mi siederei di fianco a te ma su questa sedia ci sono dei vestiti, non è che per caso sono tuoi? Così magari li sposti». Evidentemente i vestiti non sono suoi o comunque non vuole che mi metta di fianco a lei, così continuo a cercare un posto congedandomi in qualche maniera sicuramente ridicola. Trovo da sedermi esattamente di fronte, ma nella fila parallela, quindi le do spudoratamente le spalle.
Sento il suo sguardo scorrere sulla mia nuca e sul cappuccio della giacca (ma potrebbe essere chiaramente una mia paranoia). Mi metto ad ascoltare amy winehouse, la musica in queste circostanze è come se elevasse il mio livello di autostima, come se sapere che quello che sto ascoltando lo sto sentendo solo io mi attribuisse una qualche superiorità sul prossimo. E così la nuova acquisita fiducia in me stesso trasforma anche la mia postura, svaccata sulla sedia, e il mio sguardo, o almeno ho questa sensazione. C’è una tipa abbastanza panterona che mi guarda più di quanto si guarda normalmente qualcuno che non si conosce e che sta aspettando come te di salire sull’aereo. La differenza è che lei è in piedi in fila, come quasi tutti gli altri pecoroni (anche su questo ragionerò a lungo: perché la gente, che non è mediamente meno sveglia di me in queste cose, vuole a tutti i costi salire prima sull’aereo, che poi non è sempre detto che accada, sopportando decine di minuti in piedi in fila con i bagagli? bah). Io, per timidezza e altre varie annose questioni, cerco di non ricambiare più di tanto lo sguardo, anche se, come sempre in questi casi, ho una tremenda voglia di farlo. E allora le lancio qualche occhiata furtiva ogni tanto, anche per vedere se mi sta ancora guardando (madonna, come i bambini…), facendo così qualche piccola concessione alla mia bramosia.
Sto abbastanza bene, sono calmo e fiducioso, mi guardo intorno senza fissarmi su nessuno in particolare, gli auricolari nelle orecchie mi danno un’aria che mi piace sentirmi addosso, come di interesse distaccato (avevo scritto “distacco interessato”, e io odio gli ossimori…).
Mi sposto su una sedia più a ridosso della fila per tener d’occhio lo scorrere delle persone che passano l’ultimo controllo prima di scendere sulla pista (check-in?). Noto il ragazzo spagnolo, gli faccio un cenno, ma lui non mi vede. Mentre la fila si sta per esaurire mi alzo mollemente, ostentando l’assoluta irrilevanza che ha per me imbarcarsi per primi (e di conseguenza la mia indiscussa superiorità come essere umano). La hostess, mentre cerco con qualche difficoltà di tirar fuori la carta d’identità, mi dice affabilmente di lasciar stare, si fida di me! che carina…
Con la giacca semiaperta e soprattutto senza più cuffia e sciarpa, tolte nell’inutile e stupida calura della sala d’aspetto (volevo scrivere lounge perché fa più fico, ma non suonava bene “della lounge“), ci stiamo congelando le chiappe sulla scala mobile (nel senso che ha le ruote alla base, non i gradini che scorrono) battendo i denti nell’attesa che quelli davanti entrino in aereo.
L’aereo è praticamente pieno, soprattutto di ragazzi e ragazze spagnole, evidentemente erasmus. Molti si conoscono, chiacchierano e ridono. io mi sistemo di fianco a due di loro, due amiche, che sembrano abbastanza tranquille e che non conoscono nessuno. mi irrigidisco (parlo dell’atteggiamento). È normale in queste situazioni. Il mio cervello si trastulla con pensieri fini a se stessi riguardo all’attrazione istintiva che sento per la tipa che mi è a fianco, mentre faccio tutte le mie proiezioni su di lei, come se avessi già deciso che è per forza figa (il nanosecondo che ci vuole per chiedere «è libero?», indicando il posto a sedere non è abbastanza per farsi un’idea precisa). Ascolto quello che dicono, non che mi interessi particolarmente, ma è come un bisogno morboso di percepire ogni loro parola, ogni mossa, ogni espressione, come per tenerle sotto controllo… non so perché lo faccio, mi viene così.
Il mio irrigidimento è anche lo sforzo di non causare il minimo movimento che possa attirare l’attenzione o disturbare, forse per la solita paura di apparire ridicolo o molesto. Il turbine dei miei pensieri si mette in moto: «Avrà capito che sono italiano dalla mia domanda? Se sì, questo potrebbe affascinarla. Ho appena riso a una battuta dello steward in spagnolo, questo magari l’ha confusa, o forse così penserà che sono italiano ma so lo spagnolo, ancora meglio! Mi si è messa molto vicina, mi sta sfiorando un ginocchio con la manica della giacca, ha inclinato la testa per addormentarsi dalla mia parte e non da quella della sua amica, questo è un gesto inequivocabile!».
Ho un fortissimo impulso a scostarmi dallo schienale, girarmi verso di lei e guardarla bene in faccia, e magari dare una controllata al fisico, anche se da seduti non è facile valutare, anzi, quasi quasi la farei alzare e le direi di fare una passeggiatina su e giù per il corridoio per farsi vedere come si deve. Ma ovviamente quest’impulso è irrimediabilmente dominato da un altro (o se non è un impulso non so come altrimenti chiamarlo), ovvero quello stesso che mi fa irrigidire, che mira a farmi avere un contegno assoluto e dignitoso, per i motivi vagamente accennati sopra. Insomma, è un gran casino, la mia testa è un’industria di viaggi e paranoie.
Lo steward è un buontempone, parla solo inglese e spagnolo, chiaramente la sua lingua madre, nella quale sciorina una serie di battute notevoli infilate nella pappardella solita della procedura di partenza. Ha proprio del talento, anche se molte battute non le capisco. la prima (che è poi quella a cui ho riso facendo capire alla tipa che so lo spagnolo…) è un richiamo dell’attenzione generale sul suo cappello da babbo natale (evidentemente parte della divisa degli steward in questo periodo. Le donne invece hanno il fermaglio dei capelli adornato con il classico nastro natalizio sberluccicante).
Un tipo dietro di me parla a macchinetta, proprio come quelli che odio, che chiacchierano a vanvera per non dire niente se non cose ovvie e inutili. per fortuna quando parte l’aereo si addormenta.
Il volo è un po’ palloso, non riesco a rilassarmi, un po’ per le tipe di fianco che mi tengono involontariamente sul chi va là, un po’ per il casino dei ggiòvani spagnoli, aizzati dallo steward cabarettista. Passo alcuni minuti a tormentarmi riguardo al tirare fuori il panino e mangiarmelo: «E se mi sgridano perché non si può consumare cibo personale? O anche solo se facessi la figura del barbone a far vedere che ho portato il panino da casa… forse adesso non si può ancora mangiare, magari bisogna aspettare di essere in quota. Ok, mangerò quando si sarà spenta l’indicazione di allacciare le cinture». Poi altri viaggi tipo: «Le tipe qua di fianco, vedendo il mio panino al tofu, penseranno che è formaggio, o magari invece sono vegetariane e riconoscono il tofu dall’odore e mi chiedono se sono vegetariano e iniziamo una lunga chiacchierata sul vegetarismo e la tipa di fianco a me si innamora e viviamo per sempre felici e contenti. Ma il tofu non fa nessun odore. Cazzo».
A un certo punto, in un raro momento di quasi-quiete, l’aereo ha uno scossone, tutti sobbalzano sui sedili, sia per lo scossone stesso, sia per la fifa (il tipo alla mia sinistra, sulla fila parallela, si abbarbica al bracciolo e sposta una gamba sbattendo un piede per terra in un impeto di panico, come per la paura istintiva di essere sbalzato via). Mormorii guizzano per la carlinga. Da qui parte un’altra serie di pensieri, che ho già fatto spesso, sull’analogia tra i sussulti dell’aereo e quelli dei mezzi su terra come il treno o la macchina: l’idea che l’aereo sta nell’aria esclude automaticamente, nella nostra testa, che possa avere sobbalzi, o meglio, se li ha è perché sta succedendo qualcosa di anomalo e preoccupante. Forse anche i film in questo hanno una parte di responsabilità. In realtà io sono giunto alla conclusione che non c’è nessuna differenza tra il treno e l’aereo per quanto riguarda i sobbalzi: ne sono soggetti in ugual misura e la differenza di supporto fisico sul quale viaggiano (le rotaie e l’aria) non è per nulla rilevante. Mi compiaccio della mia certezza.
Prima di atterrare mi sembra di carpire dalle parole delle mie vicine di sedile, che le angoscia quando la gente si accalca nel corridoietto centrale per scendere dall’aereo e una delle due suggerisce all’amica di immettersi al più presto nella fila per arrivare prima all’uscita. Naturalmente mi faccio carico di questa esigenza come e più che se fosse mia, e visto che se non mi sposto io loro non possono passare, sarà meglio che anch’io mi dia una mossa. Un altro motivo per non poter restare fino alla fine seduto e fare scorrere con calma la gente frettolosa come è mio solito fare, è che devo intercettare il mio passaggio per elche.
Come mi aspettavo, la temperatura è decisamente primaverile rispetto a quella di Bologna. Ci caricano sulla navetta, cerco con lo sguardo i miei promessi benefattori ma non li vedo. Arrivati al rullo che dovrebbe restituirci i bagagli mi appoggio a una colonna per vedere e farmi vedere da tutti quelli che passano, allo scopo di beccare i miei due spagnolini. Arrivano e naturalmente mi riconoscono prima loro. Il ragazzo mi si fa incontro sorridendo e ci mettiamo d’accordo per vederci fuori. Nel frattempo penso: «A me starebbe un po’ sul cazzo dover scarrozzare uno a caso dopo che non vedo i miei da mesi. Cioè, avrei solo voglia di stare con loro e di andare a casa, non mi sentirei a mio agio con uno sconosciuto in macchina… naturalmente per gentilezza forse l’avrei fatto anch’io, ma avrei sperato fino all’ultimo con tutte le forze di non ritrovare più l’italiano scroccone».
Poi rifletto sul fatto che questo sia o meno normale, mi chiedo quanta gente sia davvero così schiva e ai limiti dell’asocialità e se la maggior parte delle persone lo sia ma lo nasconde bene o se invece non lo è proprio. Propendo per la seconda opzione. Il ragazzo spagnolo è così timido anche lui che mi viene da credere che non sia troppo entusiasta di darmi questo passaggio, ma anche questa è chiaramente una sega mentale. Mentre mi dirigo verso l’uscita sento un “ehi!” e vedo lui che mi corre incontro invitandomi a raggiungere il loro capannello. Gli dico: «Io mi chiamo Luca» (quel “ehi!” non mi è piaciuto molto), lui Edu, ci diamo la mano.
Ha inizio un momento di forte stress emotivo, l’imbarazzo dei minuti che seguono ha pochi eguali nella storia. Mi immaginavo che sarebbero venuti a prenderli solo i genitori, invece sono veramente tanti, o almeno è la sensazione che mi danno. Naturalmente, non vedendosi da tempo, sono tutti animati e frenetici, io me ne sto lì buono a un lato. In realtà sono tutti molto gentili, la ragazza mi presenta quasi subito ai suoi (come in un fidanzamento…) e la madre comincia a chiacchierare con me amabilmente.
A un tratto mi assale il dubbio feroce che mi stia solo interrogando per capire se sono un soggetto affidabile e se merito di ricevere i loro favori. Il dubbio mi si scrolla rapidamente di dosso. Decidono che mi porterà la famiglia di Edu, che ha la macchina più grande, mentre discutono su dove andare a cenare e dove darsi appuntamento. Ancora sono investito dal panico: «E se mi chiedono di andare a mangiare con loro? Ormai gli ho detto che ho il pullman alle tre passate e comunque non riuscirei a mentirgli su un dettaglio così importante, magari possono avere lo slancio di generosità di invitarmi… devo assolutamente declinare con educazione ma con fermezza… merda, sarebbe una situazione disperata, un’intera cena con due enormi famiglie, due dei cui figli sono stati via per mesi… che cazzo ci starei a dire io lì in mezzo? Mi sentirei davvero un lombrico fra i bruchi. Come se non bastasse ci sarebbe l’altrettanto immenso problema del cibo, più che per cosa mangiare, per l’ulteriore imbarazzo che potrebbe sorgere dalla situazione… e le domande sul veganismo, le idiozie che dovrei sopportare… no no, devo evitarlo a ogni costo».
Siamo nel parcheggio, mi fanno caricare gli zaini nel bagagliaio. Avevo capito che sarebbero venuti tutti alla stazione e che quindi ci saremmo salutati là, invece la ragazza e sua mamma mi salutano, lasciandomi un attimo spiazzato. Questo esatto momento è l’apice assoluto dell’imbarazzo, come pochi ne ho passati in vita mia. anche questa credo sia una scena abbastanza classica, che ricorre spesso nella quotidianità di chiunque: salutarsi, più o meno definitivamente, con gente con cui non si ha confidenza e il disagio che se ne crea. «La bacio o non la bacio? Le do la mano? Non le do niente? Mi giro per primo? Ma sono un cafone? Aspetto che si giri lei? E reiterare questa tortura?».
Decido di baciare la ragazza, mi avvicino alla sua guancia con gesto inequivocabile e mi sembra di notare un leggero sgomento nei presenti. Un decimo di secondo troppo tardi mi viene in mente che gli spagnoli baciano al contrario (sinistra-destra e non destra-sinistra come noi), ma lei non fa una piega, evidentemente, penso, dopo tre mesi in italia si sarà abituata a baciare al contrario. È il turno della madre. Scambio di battute di circostanza e auguri vari, faccio un passo in avanti perché sarebbe logico che baciassi anche lei ora, ma mi blocca qualcosa, lei non accenna a venirmi incontro, credo di intuire che non voglia essere baciata, perfetto, a me va benissimo. Finalmente si sale in macchina, sfuggo a questa tragica prova di bon-ton.
Non che in macchina la situazione sia molto migliore. Dietro siamo leggermente stipati, da sinistra verso destra: Edu, suo fratello, io. Il fratellino (sui vent’anni) è stato gentile a mettersi nel mezzo, la posizione più scomoda, nonostante io gli abbia proposto di starci io. Realizzo subito che è una famiglia tranquilla, pacata, non parlano molto, men che meno il padre, a parte una dissertazione sui coltelli multiuso e la domanda che mi rivolge: «Hai già cenato?», dico di no ma che ho un panino nello zaino, e la faccenda muore lì, con mio infinito sollievo. Tutto fila liscio, mi lasciano alla stazione dei pullman, Edu mi vuole dare il suo contatto facebook (ora sembra proprio che gli stia simpatico…) per beccarci un giorno a Bologna.
Ore 23:00. entro nella stazione e mi sento più leggero, finalmente solo, con quattro meravigliose ore di attesa davanti, il pullman, secondo il tabellone, parte alle 3:10. Nell’atrio c’è un gruppetto di fighetti, o almeno così mi sembrano dopo uno sguardo veloce. esco dalla porta scorrevole di fronte e finisco sulla banchina. In tutta calma mi sistemo su una panchina e comincio a scartabellare per estrarre il panino dallo zaino. mi godo ogni più piccolo movimento, che faccio con estrema lentezza, assaporandolo, come se l’idea di procrastinare ogni gesto in vista della lunga attesa mi desse un certo sottile piacere. Mi gusto dolcemente la proiezione dell’immediato futuro e del piano che ho in serbo per lui: mangiarmi l’altro delizioso panino insalata e tofu e magari un pezzo di castagnaccio (ho una fame della madonna), poi bere un goccio d’acqua fresca dalla bottiglietta, fumarmi la prima sigaretta dopo molte ore e, a scelta, iniziare a leggere il satyricon o ascoltare musica.
Su quella panchina davanti alle piattaforme di sosta dei pullman, con tanto tempo da far passare, di notte, nella quasi totale solitudine, mi sento bene: è ancora meglio che rivedere un vecchio amico, è come se il vecchio amico fossi io stesso, compagno di tante situazioni come questa. lascio che tutta la dolce malinconia che portano con sé questi ricordi inondi la mia mente e ne lambisca gli argini accarezzandoli. Compiacimento e nostalgia.
Torno dentro, nell’atrio, e mi metto a leggere. Non c’è nessuno. Dopo un po’ entra una tipa con una valigia blu enorme e della roba appoggiata sopra. sembra un po’ agitata, ma tendo a pensare, non so perché, che sia così lei, di natura.
Mi passa davanti un paio di volte cercando qualcosa. la mia attenzione è totalmente agganciata dalle sue mosse, non posso farci niente, ma ancora una volta sono costretto a far finta di nulla e tengo gli occhi fissi sul libro, rileggendo la stessa frase decine di volte. Ogni tanto alzo lo sguardo furtivamente per spiare i suoi movimenti e mi accorgo che vuole fare il biglietto.
Penso che deve avere un discreto coraggio, o altrimenti incoscienza, a vagare per una stazione di pullman da sola di notte, soprattutto perché è piuttosto avvenente e non fa nulla per nasconderlo. Altra serie di pensieri che si accavallano e si accatastano gli uni sugli altri: «Forse in Spagna hanno davvero la mentalità più aperta, non c’è la paura del prossimo che c’è da noi, o forse è solo questa qua che è matta…».
I miei dubbi vengono ulteriormente fomentati quando si rivolge a me («e se fossi un assassino, un ladro, uno stupratore, o anche solo un maschio nella media, di quelli che non perdono occasione per provarci..?». È quasi come se mi irritasse il fatto che non ha paura di me, “ma come osa??”). Chioma fluente biondo platino che le arriva al culo, una pettinatura che trascende ogni logica umana (escher ne avrebbe tratto il suo miglior quadro), trucco pesante, jeans attillati che rivelano due mazze da golf al posto delle gambe, giubbottino lucido imbottito, borsetta, cicles masticata sguaiatamente (forse questo dettaglio lo sta aggiungendo la mia fantasia, ma ci sta a pennello): «Scusa, tu sai dove si comprano i biglietti?».
Non lo so, ma sono abbastanza sicuro che a quest’ora non si possa fare e che si debba pagare direttamente all’autista, come per esempio farò io. il problema, mi spiega, è che ci sono solo sei posti liberi nel suo pullman per cui deve assolutamente prenotare subito. più di così non so che suggerirle e mi rimetto a far finta di leggere, mentre lara (più tardi imparerò il suo nome per caso) continua ad andare avanti e indietro col cellulare in mano e a sbattere il pugno sulla macchinetta delle ricariche telefoniche per cercare di fare uscire il biglietto (anche questo dettaglio credo sia opera mia).
Dopo tre minuti torna a interpellarmi: «Non è che tu hai la carta eh?». «La carta di credito?».
Sì, vuole la mia carta di credito. Nel mio cervello scatta l’allarme lampeggiante con sirena molesta: ATTENZIONE! ATTENZIONE!
Combatto tra la mia naturale predisposizione ad aiutare gentilmente chi me lo chiede (se poi è una giovane biondina…) e la mia ritrosia e diffidenza verso il genere umano, e a maggior ragione verso una che non ha esattamente l’aria di essere una personcina posata.
È anche vero che se fosse un uomo, magari un tossico o un barbone, la mia diffidenza sarebbe infinitamente maggiore, ma in questo momento non trascuro che anche le donne sono capaci di truffare, anzi alcune di loro fanno proprio leva sul loro ascendente per fotterti (almeno questo ci insegnano i film).
Le spiego, cercando di non far vedere che spero che la cosa vada a monte, che la mia non è proprio una carta di credito e che comunque è italiana, ed esprimo dubbi sul fatto che il circuito su cui gira la mia carta sia accettato dalla compagnia dei pullman. Lei o non capisce o non mi caga e fa il numero dell’Alsa per comprare il biglietto al telefono.
Mi scervello per cercare di intuire dove possa stare la fregatura, anche se valuto seriamente la possibilità che la ragazza sia onesta. è che non si sa mai, anzi, “a pensar male si fa sempre bene”, qualcuno dice. Vuoto un po’ imbarazzante: è in attesa che le rispondano al telefono, ma visto che, come mi dice, quel numero costa due euro al minuto, si guardano bene dall’affrettarsi a farlo.
Rimettermi a far finta di leggere è praticamente impossibile perché lara mi è seduta di fianco, rivolta verso di me e mi guarda come se volesse condividere il disappunto per la dispendiosa attesa. Tra un silenzio e l’altro scambiamo qualche battuta e lei si accorge che non sono spagnolo (senza difficoltà visto che mi incarto sulla parola “autista” non ricordandomi come si dice): «Ma tu di dove sei?!», mi fa con un’aria stupita. Glielo dico, poi si passa a parlare del tempo. In realtà ne parliamo perché abbiamo freddo. Nonostante ci siano venti gradi in più rispetto a bologna sto tremando, ma presumo che si tratti ancora del freddo accumulato in italia aggiunto alla stanchezza e allo stress del viaggio (o più probabilmente a quello a cui mi sta sottoponendo la mia bionda).
Mi chiede cosa vado a fare ad Almerìa, le dico che vado a trovare un’amica che vive lì. Vuole sapere che tipo di amica è, le dico che è un’amica e basta, ma lei insiste nella sua convinzione e, tutta entusiasta, mi annuncia che se un ragazzo prendesse un aereo per andarla a trovare, lo sposerebbe subito. Poi chiacchieriamo un po’ della nostra vacanza e mi dice che va a cordoba a trovare un amico (ma allora…).
«Passerai il capodanno ad Almerìa con la tua amica?».
«Sì».
«Allora vedi…».
«(Ma vedi COSA?!) e tu?».
«Non lo so. Dovrei tornare al lavoro qua».
«Che lavoro fai?».
La sua faccia si apre in un sorriso strano, tra l’imbarazzato e l’espressione sincera di una che non si imbarazza mai. Lascia passare qualche secondo, la guardo negli occhi aspettando una risposta, non credevo fosse una domanda così compromettente, la mia mente parte in quarta per spiegare la sua reazione: «Magari fa la puttana e magari secondo lei avrei già dovuto accorgermene da un pezzo, forse per lei è assolutamente ovvio che il suo atteggiamento non può essere altro che quello di una puttana…».
«Cameriera», dice.
Finalmente rispondono al telefono, lei spiega la sua situazione, naturalmente ci sono discussioni e incomprensioni, le dicono cose diverse da quelle comunicatele poco prima da un altro impiegato. sembra che il pullman diretto non ci sia, allora viene chiarito che deve prenderne due, prima Elche-Malaga poi Malaga-Cordoba. Arriva il momento di tirar fuori la postepay. Lara detta il numero della mia carta alla tipa al telefono, poi la data di scadenza. Temo che ci voglia anche la password perché per me non ha senso poter pagare solo dicendo i numeri che sono scritti sulla carta, chiunque te la rubi o anche solo si copi i numeri può incularti. Invece è proprio così, e poco più tardi confesserò la mia disapprovazione in merito e com’è logico lara scherzerà sul fatto di essersi segnata il numero della carta. Dal modo in cui fa questa battuta mi convinco un po’ di più che non ha intenzione di raggirarmi.
Mentre scandisce i numeri ad alta voce appoggia il braccio sulla mia gamba, in un atteggiamento tanto per me spregiudicato quanto assolutamente innocente e spontaneo. Mi viene in mente che potremmo intraprendere una meravigliosa storia d’amore: la poco-più-che-adolescente iper-fighetta, svampita, carina, emancipata, frizzante, superficiale (almeno dal classico punto di vista) e il solitario vegano, introverso, sociofobico, tormentato, utopista a tratti, con il pallino della bici e dei vestiti usati. Bell’immagine, naturalmente niente di più lontano dal verosimile.
Invischiato in questa situazione surreale, non capisco bene cosa sta succedendo, cioè, capisco che ha pagato i biglietti con la mia postepay, ma non ho realizzato i vari passaggi della faccenda, quelli che riguardano lei, la sua ricerca dei biglietti e il suo viaggio. Si fa dire il prezzo del secondo biglietto, quindici e rotti, ma mentre l’impiegata sta risalendo al costo del primo, cade la linea. Lei riprova a chiamare ma dopo un po’ desiste, giustamente, perché non le va di sputtanarsi tutti i soldi del cellulare. Io le dico che mi sembra che la tipa abbia detto che sono cinquantatré euro, ma lara non se lo ricorda e afferma che devono essere sicuramente meno, ma per non sbagliare me ne dà settanta. Oppongo una debolissima resistenza e li prendo subito, ma nel frattempo sostengo che sono indubbiamente troppi.
Mi chiede se fumo le canne, tira fuori un pacchetto di erba e me la fa annusare. Non riesco a esprimermi molto bene, un po’ per la tensione dovuta a questa figa che magari mi vuole inculare e con quest’atteggiamento libertino che mi mette parecchio in soggezione, un po’ per lo spagnolo che devo ancora riattivare del tutto. Insomma, incespicando un po’ nelle parole le spiego che fumo ogni tanto, ma sempre in situazioni tranquille, in genere quando sono a casa. Allora ne stacca un pezzetto, lo incarta e me lo porge. Ringrazio, e incasso.
Non posso fare a meno di pensare che alla fine da tutta ‘sta storia ci ho solo guadagnato, e non soltanto in beni materiali come i soldi e l’erba, ma anche in tempo (un simpatico diversivo per trascorrere una parte della lunga attesa) e in esperienza di vita (che sto diligentemente annotando perché non vada dimenticata e la cui protagonista contribuirà ad arricchire il mio inventario di personaggi bizzarri).
Lei tira su la canna, vagamente preoccupata dalle telecamere e da eventuali sbirri che potrebbero apparire, io mi faccio una paglia e usciamo. Passa una macchina della polizia, sembra che alla rotonda in fondo giri per entrare nella corsia di accesso alla stazione, dove siamo noi. Attimi di panico che sembrano assalire soltanto me perché Lara ha già deciso che hanno preso un’altra direzione e incurante dà le spalle allo scongiurato (per lei) arrivo della macchina con i lampeggianti. Io invece continuo a guardare da quella parte per un po’ e prendo in mano il pacchetto di erba, pronto a tirarlo dietro il bidone del rusco (questa in realtà è un’idea sua).
Chiacchieriamo un po’, scopro che è di valencia, le dico che ci ho vissuto, lei sostiene che è meravigliosa perché c’è più festa che a Barcellona e Madrid, «C’è festa tutte le sere!». Mi viene da pensare che non è proprio così e che comunque Valencia è una città molto fighetta e con la maggior parte dei locali che mirano a quel target. Ma ovviamente mi taccio e mi godo la sua apparente ingenuità. È possibile che non si accorga che non sono come lei? Perché mi tratta come se fosse scontato che anch’io appartengo a quel mondo? Non si vede da come vado in giro che sono esattamente l’opposto? Ma poi ha un’illuminazione. Mi chiede: «Sei stato a Mykonos?».
«No».
«E a Ibiza?». «Neanche».
«Aah, ma allora non ti piace la festa, eh?!».
La mia risposta sparisce nel buco nero della sua geniale intuizione e viene risucchiata nel nulla appena le parole mi escono di bocca: «Beh, ma ci sono altri posti in cui c’è festa…». Mi stupisco da solo per aver dato una spiegazione così mediocremente banale a un lampo di così puro estro.
Come mi aveva accennato in precedenza, arriva un suo amico, che ovviamente non ho capito chi è e per cosa è venuto. lei gli racconta brevemente quello che ho fatto e mi riempie di lodi del tipo «mi ha fatto un favore incredibile, non l’avrebbero mica fatto in tanti…». All’improvviso mi sorprende avvicinandosi e salutandomi con due baci, «è stato un piacere, grazie mille, ciao». Non avevo capito che se ne sarebbe andata, pensavo che avrebbe aspettato con me il pullman, il suo è alle 3:45. Rimuginando un po’ arrivo alla conclusione che starà in giro con il tipo, il quale la riaccompagnerà in stazione più tardi.
In fondo non mi dispiace troppo che se ne sia andata, tornerò al mio libro e alla mia quiete, ristabilirò il mio prezioso equilibrio appena sconquassato dalla bomba-Lara.
Poco dopo essermi rimesso a leggere, arriva il “security” che gentilmente mi comunica che deve chiudere, dovrò aspettare fuori. Non c’è problema, la temperatura è solo di poco più bassa. Leggo parecchio. Mi sgranchisco le gambe facendo qualche passo avanti e indietro per la banchina, accenno anche qualche movimento di ginnastica, osservo la cartina di Elche appesa alla parete. Proprio una bella cartina, come quelle che piacciono a me, coi disegnini tridimensionali e i colori che invitano a fantasticare sui palazzi, le strade, i parchi… vado a pisciare dietro a una palma, continuo a essere completamente solo davanti alle piattaforme. C’è qualcuno che va e viene dal market del benzinaio, inserito nello stesso stabile della stazione e in cui vedo, oltre ai vetri della finestra e a una sala vuota, l’omino vicino al frigo che chiacchiera con qualcuno. Fumo un’altra paglia, poi fumo ancora poco dopo.
Alle 2:45 dovrebbe arrivare il pullman per Denia e Gandia, viene annunciata la sua partenza dall’altoparlante, ma non ce n’è traccia. Mentre continuo a chiedermi perché non passa, si fanno le 3:00, la signorina dell’altoparlante mi assicura che il pullman per Almerìa sta per arrivare e dieci minuti più tardi mi garantisce che sta partendo in quel momento, ma con disappunto sono costretto a contraddirla: tutto tace come nelle ultime tre ore. Dopo un quarto d’ora giro l’angolo ed entro nel market del benzinaio, chiedo lumi al “security” e alla cassiera grassoccia e gentile che, tranquillizzandomi, mi consiglia di aspettare fiducioso perché «spesso sono in ritardo, ma se deve passare passa!».
Il “security” invece sostiene che non ci sia il pullman per Almerìa ma desiste ben presto dall’argomentare la sua tesi, sommerso dalla veemenza della grassoccia. Il mio timido far notare che non è passato neanche il pullman precedente, e quello doveva arrivare quasi un’ora fa, non viene preso più di tanto in considerazione dai due, ma a me invece è ciò che preoccupa di più e che mi rende quasi del tutto convinto che neanche il mio passerà mai. Comincio a viaggiare con la testa: «Se non passa che cazzo faccio stanotte? dove dormo? Già, è vero che deve tornare lara a prendere il pullman, probabilmente non passerà neanche il suo e allora saremo nella stessa situazione. magari mi dice di andare a dormire da lei poi domattina torniamo in stazione insieme. Sennò mi andrò a prendere un caffè nel market e aspetterò che apra la stazione, son già passate quattro ore, si tratta solo di aspettare altrettanto. Sì però che palle, dovrebbero rimborsarmi! Se solo avessi già fatto il biglietto».
Mi stanno davvero vorticando le palle, mi sento frustrato e impotente, quasi rabbioso (“quasi” perché di esserlo fino in fondo non ne sono capace).
Arriva un ragazzo che si siede su una panchina vicino alla mia. anche lui porta gli zaini come me. Lo saluto con l’intenzione di intraprendere una conversazione sul fatto che i pullman non passano per condividere la mia apprensione, ma lo vedo un po’ chiuso e lascio perdere. In realtà vorrei apostrofarlo ma spero che lo faccia prima lui, anche se non vedo per quale motivo dovrebbe rivolgermi la parola. Alla fine non parla nessuno. Mi irrigidisco di nuovo, sento che ogni mio movimento attirerebbe l’attenzione del ragazzo ed è esattamente quello che voglio evitare.
Arriva anche un signore cieco in tuta che prova a sedersi sulla panchina del ragazzo tastandola col bastone, ma accorgendosi che non è libera, viene verso di me per sedersi sulla mia. con un balzo felino sposto gli zaini e gli faccio spazio mentre il cieco, resosi conto che anche questa è occupata, dice: «Sta sdraiato?».
Mentre si siede borbotta qualcosa del tipo: «Sta a vedere che ci bagniamo», allora io, da bravo ragazzo quale sono, replico prontamente: «No no, non è bagnata», riferendomi alla panchina, ma il vecchio specifica che sta venendo a piovere ed è di quello che stava parlando. Aspettiamo tutti e tre in silenzio, a parte qualche rantolo sporadico del vecchio.
Scatta l’allarme della stazione, un rumore acutissimo e molto fastidioso che si accanisce contro il mio orecchio destro, lo pugnala ripetutamente con violenza. Qualche attimo dopo si apre una porta ed escono Lara e il suo amico. Lei è praticamente impazzita, molla la valigia e si mette a correre avanti e indietro per la banchina urlando numeri a caso cercando di capire dov’è il suo pullman. Quando realizza che non è ancora passato (evidentemente era agitata per il proprio ritardo) si calma e si siede. Nel frattempo, in un momento in cui è rivolta verso di me durante il suo delirio, le faccio un cenno per segnalarle la mia presenza, il tipo mi vede ma non mi riconosce (o giustamente non gliene frega un cazzo), e neanche lei mi caga di striscio. Penso che non mi abbia visto. Non mi va di andare lì e salutarli, potrebbe crearsi una situazione imbarazzante. Più che altro vorrei che si rendessero conto della mia presenza per evitare un’ulteriore figura da cafone qualora si accorgessero che li ho visti ma non ho detto niente. I miei soliti strippi paranoici. Vabbè, poco importa, se ci sarà occasione la saluterò dopo, sennò chissenefrega.
Arriva un pullman, sono praticamente sicuro che sia quello delle 3:45 che stanno aspettando tutti gli altri, e infatti lo è, ma senza indugio mi dirigo verso il conducente che sta scendendo e gli chiedo lumi sul pullman per Almerìa: «Adesso arriva». Ma poi fa una chiamata e mi dice di salire con lui che mi porta in una stazione di servizio dove potrò prendere il mio pullman. Sono saliti tutti tranne me e lara, l’autista sta cercando nel suo elenco il nominativo della ragazza senza trovarlo. Si china verso il fanale del pullman per avere più luce ma continua a non vederlo. Penso «stai a vedere che la tipa al telefono non le ha fatto il biglietto e adesso magari Lara rivuole anche i suoi soldi… e io come faccio a sapere che a me i soldi dalla carta non sono stati presi?!». Mi sto preoccupando sul serio ma è la stessa Lara che individua il suo nome nel foglietto del conducente, è tutto a posto, saliamo. Mi sistemo davanti, dietro all’autista, con gli zaini ai piedi, «sarà un tragitto di venti minuti», mi assicura.
Finalmente in strada, on the road again. Quanto mi irrita stare su un mezzo fermo (treno, autobus, macchina o aereo che sia) e quanto invece mi rilassa quando è in movimento… piove, la mia visione della strada è perfetta, la domino dalla mia posizione centrale ed elevata. Di fianco a me c’è un tipo che legge alla luce della debole lampadina sopra la sua testa. La situazione invoglierebbe a rilassarsi del tutto, magari a dormire, ma devo resistere ancora un po’. Penso a Lara, che poco fa, prima di salire sul pullman, ha incrociato lo sguardo con il mio per qualche lungo istante, ma poi l’ha distolto senza dire “beo”. Io la stavo guardando perché mi sembrava ovvio che se mi avesse visto in faccia mi avrebbe riconosciuto, invece niente, non mi ha cagato neanche così, anzi, avrà pensato che fossi uno dei soliti provoloni con cui avrà a che fare sempre. è incredibile, DOPO TUTTO QUELLO CHE C’E’ STATO TRA DI NOI, E SOLO POCHE ORE FA… mentre mi guardava aveva l’espressione a metà tra quella di una con seri problemi di vista e quella di una strafumata. Ed ecco che è il mio turno per l’illuminazione: Lara; mezza cieca e strafumata! Sì, avrei potuto dirle qualcosa, farmi riconoscere, ma ormai a che pro?
In pratica l’autista del pullman per Almerìa ha deciso di non passare per Elche perché era in ritardo, fregandosene bellamente degli eventuali pirla che lo aspettavano. ancora una volta mi sento un po’ preso per il culo e vittima di ingiustizia, ma c’è poco da fare al proposito, e comunque sembra che la situazione si sia risolta e che ormai raggiungerò Almerìa a breve.
Alla stazione di servizio cambio pullman, mentre il nuovo autista mi accoglie, sapendo già chi sono e dove vado, gli chiedo cercando di mostrarmi ingenuo e sinceramente interessato: «Non è passato per Elche?». Lui bofonchia qualcosa del tipo «ero in ritardo, comunque c’era il mio collega…». Sicuramente è una prassi consolidata quella di saltare le fermate e lasciare che il pullman successivo raccatti gli eventuali utenti per portarli da un’altra parte a fare il cambio. Mah.
Ffinalmente posso appisolarmi, il viaggio passa in un lampo.
Prima delle nove sono ad Almerìa. Pioviggina. mi incammino di buon passo verso il paseo, il lungomare. Ho l’indirizzo di giulia e comunque so qual è più o meno la via, sono indeciso tra due o tre ma penso che non avrò problemi a trovare quella giusta. invece ne ho, vado avanti e indietro come un coglione, cercando i cartelli con i nomi delle strade che però sono solo all’inizio della via, mentre io devo stare verso l’altra parte, dovendo trovare il civico 1.
Chiedo a una signora che dice che il nome della strada le suona e che dovrebbe essere in zona. Mi suggerisce di provare con la via parallela, che è quella da cui vengo e che nella mia testa ho già escluso. La pioggia insiste, anzi aumenta, e con lei le mie imprecazioni che cominciano a diventare madonne. Mi decido ad andare fino in fondo alla strada per leggere il cartello con il nome. Cristo! È giusto! Alàura, taurna indré (licenza poetica), per esclusione trovo il civico 1 (che ovviamente non è segnato), cerco il campanello… NON C’È!! Boia… Giulia mi ha detto 2-s ma le lettere disponibili sono altre. Presumo di aver capito male io e l’unica lettera, tra quelle presenti, che può essere confusa con la “s”, è la “f”, per cui sono abbastanza convinto che il 2-f sia il campanello giusto. Ma se non lo fosse?
Sono le nove di sabato mattina, magari uno potrebbe anche scazzarsi se lo tiro giù dal letto… mentre medito sul da farsi arriva un signore che apre il portone e mi ci infilo. Il tipo è di una maleducazione sconcertante, entra in ascensore e si chiude in fretta la porta alle spalle senza cagarmi pari. Esiste davvero gente così cafona?! Comunque il mio problema non è risolto, salgo a piedi al secondo piano, trovo l’appartamento 2-f e busso delicatamente. Dopo un po’ busso un po’ più forte, ormai ho deciso di provarci, se non è quello giusto mi getterò nella disperazione più nera, anche perché Giulia ha il cellulare spento. Il terzo tentativo lo faccio direttamente con il campanello. La voce che pronuncia il «sì?» dall’altro lato della porta scioglie all’istante la tensione delle ultime quindici ore e distende, uno a uno, tutti i miei nervi tirati. «Lucaaa!». Sabato 18 dicembre – ore 9:15.
(Luca Manni, Da casa a casa, Bologna-Almerìa)
L’immagine: l’Alcazaba di Almerìa, splendida fortezza moresca, complesso monumentale in Andalusia secondo per grandezza solo a quello dell’Alhambra di Granada.
Viviana Viviani
(LM MAGAZINE n. 16, 15 aprile 2011, supplemento a LucidaMente, anno VI, n. 64, aprile 2011)