Poesia della materia e materia della poesia è il titolo della Postfazione di Massimo Caviglione a Dal fondo del metallo (pp. 64, € 12,00) della poetessa Erika Dagnino, sesta uscita della collana di letteratura Nerissima delle nostre edizioni. Vediamo come il critico letterario descrive l’opera.
Dal fondo del metallo, ulteriore epifania poetica in versi e prosa di Erika Dagnino, mette in gioco radicalmente e nella sua integralità la questione del rapporto materia/poesia, non soltanto nella sua dimensione contenutistica – la materia, in tutte le sue forme, come “figurazione” oggettuale, ispirazione e referente primario di tutta la sua opera, tanto più concreta quanto più è “spiritualizzata” e viceversa – ma anche nel suo, affascinante, sempre presente, discorso su sé stessa. Materia metapoeticamente o metalinguisticamente intesa, insomma, come caratteristica intrinseca a ogni riga dell’opera tutta.
Ogni verso, ogni periodo, potremmo dire ogni parola scritta di Dagnino, infatti, pone implicitamente la domanda: qual è la mia composizione materica? Da cosa sono costituita nella mia fisicità? O ancora: fino a che punto la mia fisicità mi costituisce? Fisicità come domanda, insomma, come essenza del poetico, ma anche come ri-soluzione del reale e messa in essere, radicale questione di senso.
Non soltanto versi e prose scendono al dettaglio concreto sollecitandolo a scandagliarsi nel suo continuo interrogarsi e interrogare il lettore, ma questo stesso particolare assume all’istante una funzione metonimica: la domanda di senso sulle cose si proietta anche su qualcosa di più vasto, in un espandersi di contorni e infine sulle persone, o fantasmi di persone, evanescenti ma non certo riducibili alla sola enunciazione di sé, facendosi totalizzante, irredimibile, come nel tanto concreto e tanto sfuggente – secondo i comuni crismi dell’afferrabilità – Lettere da Lewes, violazione perfino delle regole di identità di genere.
Il metallo, sotto l’azione del tempo ma anche dell’imponderabile, si corrode e si trasmuta – ma è il dolore, sua componente ineludibile, quasi anima occulta delle cose, a fecondarlo alchemicamente, nel crogiolo della struttura, gabbia sempre frantumata e frantumabile – e la trasmutazione materica dà luogo alla creazione di un nuovo, uguale ma diverso metallo che, quasi fecondato, è subito pronto a mutare ulteriormente forma, attraverso una rinnovata manifestazione del dolore. Il dolore come conduttore di materia, la materia come canale del dolore, in un continuo fondersi e rapprendersi in figure che ci sembra di conoscere dalla nostra propria esperienza sensoriale, ma che contemporaneamente non riusciamo mai a catturare del tutto, a stringere nei consueti confini del nostro esperire, anche artisticamente inteso.
Ogni immagine di Dagnino non è mai fine a sé stessa, insomma, costituendosi come veicolo e superamento di quello che può sembrare un’impasse, un vicolo cieco, ma che all’ultimo istante sembra aprire la sua barriera, fino all’impasse successiva. Di fronte a quello che è un vero e proprio percorso ad ostacoli, quindi, cerchiamo dunque di esercitare un’osservazione obliqua, di ascoltare l’eco dell’enunciato, procedendo oltre la lettera del dettato: udremo un altro suono, quello di una voce strenua e molto assertiva, che ci indicherà la sola direzione di salvezza possibile, la più apparentemente labile, ma anche la più sicura: quella della vera, autentica Poesia. Al termine di questo itinerario potremo attingere, forse, ma soltanto se avremo ascoltato con attenzione dentro di noi, a molto più di quanto abbiamo chiesto.
Stiamo però già parlando d’altro: di quanto appartiene al dominio dell’Indicibile, che tace e di cui si tace.
(Massimo Caviglione, Poesia della materia e materia della poesia, Postfazione a Erika Dagnino, Dal fondo del metallo, inEdition editrice/Collane di LucidaMente)
L’immagine: la copertina del libro di Erika Dagnino.
Simone Jacca
(LM EXTRA n. 16, 15 settembre 2009, supplemento a LucidaMente, anno IV, n. 45, settembre 2009)