La retorica del potere lo celebra, mentre le élites si oppongono a chi propugna i suoi stessi metodi e decreti. Luci e ombre di uno scomodo modello che incrina la nostra già fragile forma di governo. E che rivela alcune spinose contraddizioni delle società occidentali
Nel 2003, il Consiglio europeo redasse una Bozza di trattato per una Costituzione unica europea. Era un’idea cool. Per rendere il testo ancora più accattivante, si decise di inserire una citazione del grande padre della democrazia occidentale, Pericle di Atene. Nientemeno che dal secondo libro delle Storie di Tucidide, suo connazionale, incubo degli odierni liceali. Una specie di slogan da corteo: «La nostra costituzione è chiamata democrazia perché il potere è nelle mani non di una minoranza, ma della totalità del popolo». Poi decidono di rimuoverla. L’anno successivo, Francia e Olanda sottopongono il testo a referendum: gli elettori lo bocciano. È un paradosso: il popolo non vuole l’istituzione che giustifica la sua esistenza per suo tramite. La democrazia, da conquista, diventa una minaccia.
Se oggi quelle parole figurassero nella Costituzione comune dell’Unione europea, i palazzi di Bruxelles sarebbero già andati in fiamme. Quella carta non esiste, mentre gli appelli al popolo appartengono ormai da anni ai sovranisti, nostrani ed esteri. Base retorica di un potere virtuale e personale, affascinante e illusorio. Tirannico, appunto. È di estremo interesse notare, come già fece Luciano Canfora (Democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Bari 2004, pp. 7 ss.), che la citazione non solo era inappropriata, ma pure scorretta. Nessun «potere», né «totalità», affermava il prolifico e telegenico studioso dell’antichità. La democrazia, secondo Pericle, sarebbe piuttosto «amministrazione della maggioranza». Il prodotto di una rivoluzione, accaduta ad Atene due millenni e mezzo fa: nullatenenti che occupano «le poltrone», con retribuzioni dedotte dalle casse pubbliche. Fu molto ingenuo, oltre che errato, ritenere che in quelle parole fosse espresso il concetto di sovranità popolare, che, invece, proviene dal Settecento. Secolo in cui, del resto, si preferiva più l’ordine di Sparta che la confusione di Atene. Fu solo il Romanticismo a consacrare quest’ultima, come qui si argomenta. Rousseau e Robespierre, invece, la disprezzavano.
Dunque, tra democrazia e tiranno esiste una relazione? Matteo Salvini, in una recente vicenda, sembra esserci andato vicino. D’altronde, non ha certo tutti i torti, il ministro, a censurare il politically correct che infesta le nostre scuole. Ma è incontestabile che i fascismi e le dittature del XX secolo siano scaturite dalla democrazia. Democrazie in crisi, di cui essi si considerano sublimazione, tanto quanto per gli oppositori ne rappresentano la degenerazione. C’è una buona democrazia, in cui casta e popolo vanno d’amore e d’accordo. E ce n’è una cattiva, in cui Lucignolo eccita Pinocchio a scavalcare le regole, a fare come gli pare. Per poi ritrovarsi asino, in una schiavitù ancora maggiore. In entrambi i casi, il popolo è e resta sottomesso. Ignorante. E quando partecipa alle istituzioni, con buona pace di Carlo Collodi, non ci sono chances per la Fata dai capelli turchini. La libertà democratica si perde nel Paese dei balocchi. Eccessi, sofismi, doppi valori. E il potere ci sguazza.
«La democrazia è meglio della tirannide». Fu proprio un tiranno, Periandro di Corinto, a dirlo. Di norma, gli antichi greci erano abituati a forme di governo oligarchiche. Poche famiglie potenti (i ghéne) controllavano tutto. Alcune grandi menti dell’antichità, come Erodoto e Aristotele, non avevano dubbi al riguardo. Se i ghéne fondavano il loro potere su ricchi patrimoni e ascendenze mitiche, tirannide e democrazia rappresentavano eccezioni. Erano alleate di démos, «il popolo». Il terzo elemento, che permise a membri di spicco dell’aristocrazia di emergere al di sopra degli altri. Di creare un potere monarchico. Che, nel costume e nell’etica greca, rappresenta l’esatto contrario della libertà. Plutarco, autore di età imperiale, nelle Vite parallele accosta Pericle a Quinto Fabio Massimo, noto dittatore romano durante la guerra contro Annibale. Il potere anomalo del principe di Atene, eletto comandante militare per quindici anni consecutivi, trova spiegazione nelle strategie in cui controlla démos. Primo: la parola, tonante come Zeus. Donde il suo soprannome, “Olimpio”. Secondo: il denaro, che entrava a pioggia nelle tasche di poveri e disoccupati. Gli avversari coevi lo chiamavano tiranno, e ne bramavano la caduta.
Nel 2015, a tale illustre predecessore fu paragonato Alexis Tsipras (qui un’ispirata testimonianza). In un testa a testa con l’Europa che si risolse, drammaticamente, con la sconfitta della Grecia. E che vide impegnato Beppe Grillo, con un video on line, a celebrare la statua di Temistocle, vincitore dei Persiani a Salamina per mezzo della disinformazione. «Il primo populista»: gli antichi avrebbero detto «demagogo». Due fenomeni contigui, come potete scoprire qui. Più di recente, in un post sul profilo Instagram di Virginia Saba, sua attuale compagna, Luigi Di Maio è stato paragonato ad Aristide. Il politico ateniese, come racconta Plutarco, fu esiliato da démos infuriato; poco dopo, però, gli fu consentito il ritorno. Per l’attuale vicepremier, un modo chic di scrollarsi di dosso la sconfitta alle elezioni europee. E l’odio degli italiani che torna simpatica fiducia. Il demagogo, riabilitato, può continuare a soddisfare i loro appetiti, anche se non tarderanno le famose «letterine» dei «burocrati», «nemici del popolo».
Se Pericle fosse entrato nella Costituzione condivisa da tutta Europa, le squalifiche e le censure contro i populisti risulterebbero, di fatto, illegali. Egli rappresenta infatti l’esatto opposto di ciò che l’Unione vorrebbe che fosse una democrazia. Eppure, ne fu la perfetta incarnazione. Lui stesso ne rivendica il nome, in quella frase che poi il Consiglio europeo soppresse. Il popolo è soltanto lo specchio, vox Dei che sposta di volta in volta gli equilibri. Un referente retorico. E spaventa che la casta, tanto quanto i populisti, possano impossessarsi del politico ateniese con leggerezza, per legittimare il proprio potere. Gli antichi infatti accusavano Pericle, con buone ragioni, di aver indotto di propria volontà il grande conflitto con Sparta. Per scampare a un processo per appropriazione illecita di denaro pubblico, che lui stesso amministrava. Per altri, invece, lo fece per la sua compagna, Aspasia di Mileto, prostituta d’alto bordo. Tanto che Umberto Eco, all’inizio di un appassionato articolo, paragonò l’ateniese a Silvio Berlusconi. Altrove si dice, invece, che il suo miglior erede fu Adolf Hitler. Come tutti sanno, due ottimi esempi di democrazia.
Le immagini: Philipp von Foltz (1805-1877), Pericle parla sulla tribuna (olio su tela, 1852); Carlo Chiostri, illustrazione contenuta nel libro di Collodi Le avventure di Pinocchio (R. Bemporad & figlio, Firenze 1902); soldati della Wehrmacht sulle rovine dell’acropoli di Atene, con la bandiera nazista che sventola (Athen, Hakenkreuzflagge auf der Akropolis – foto di Jesse, maggio 1941; dagli archivi federali di Germania, licenza Creative Commons).
Federico Tanaglia
(LucidaMente, anno XIV, n. 163, luglio 2019)