La musicista siculo-toscana debutta con “And you can’t build the night”, un album potente e delicato, edito da Manita Dischi
Come nei migliori thriller, tutto inizia in una notte buia e tempestosa. È il novembre del 2015, l’insonnia non dà tregua e una melodia gira a vuoto nella testa; And you can’t build the night nasce in quel momento, da un bisogno urgente di esprimersi. Il brano segna ufficialmente la genesi di Diana, nome d’arte e alter ego di Roberta Arena, classe 1983, siciliana d’adozione e lucchese di nascita. La traccia dà il titolo all’omonimo album, uscito da poche settimane per Manita Dischi.
Nove canzoni ci accompagnano lungo un viaggio onirico e immaginifico, tra i suoni onnipresenti dei synth e le note della chitarra, “strumento guida” che Roberta suona dall’età di quattordici anni. Il padre le trasmette la passione per la musica: lei studia la chitarra classica, poi passa alla moderna e infine scoppia l’amore per l’elettronica, con cui riesce a esprimere al meglio la propria anima delicata e potente. Dopo alcuni trascorsi in vari gruppi, quali il quartetto femminile Zero in condotta e il duo Orca//biplob, l’esperienza da solista si rivela indispensabile per dare forma a quell’inquietudine creativa che la identifica e che si percepisce forte e chiara in tutto il disco. La sensazione che si avverte non è di disagio, anzi. Appare semmai come una spinta, un’onda che va e torna, che muove verso lidi sempre diversi, ma accomunati da un unico sfondo: un’atmosfera sospesa, rarefatta. L’album si apre con Lost, le cui sonorità anni Ottanta possono ricordare la colonna sonora di Stranger things, serie di grande successo ambientata proprio in quel decennio. Ottanta è tra l’altro il titolo della seconda traccia, dal mood leggero e spensierato, adatto a narrare l’amore adolescenziale, che rende felici con poco (è possibile qui pensare a The end of the f***ing world, altro celebre serial, dall’aria stralunata e tenerissima).
Il titolo della canzone rimanda agli anni in cui nasce Roberta, che probabilmente intende in questo modo richiamare il proprio passato. In effetti, le storie di vita vissuta e l’amore sono i temi chiave di tutto il disco. La terza traccia, Nostalgia di Saturno, con la sua aria dolcemente malinconica, parla della perdita di controllo che caratterizza il sentimento amoroso – Saturno è infatti il pianeta della razionalità e, nell’epica greca, il dio del tempo. Le citazioni mitologiche costituiscono un altro fil rouge dell’album. In sottofondo a Lost, per esempio, c’è un rimando letterario alle Metamorfosi di Ovidio e lo stesso appellativo d’arte “Diana” – in realtà secondo nome all’anagrafe di Roberta – costituisce anche un omaggio alla dea che presiede i boschi e la luna, oltre che la caccia.
Il mondo delle stelle e l’atmosfera lunare vengono nominati spesso, come in Se l’amore non è un’astronave, dove si parla di una passione sempre desiderata e mai concretizzata, che in sogno trova il suo compimento. Pure l’aspetto linguistico è molto interessante: l’alternanza di italiano e inglese costituisce una caratteristica peculiare dell’album. L’autrice trova infatti nella melodia e nei suoni la sua forma prima di espressione e la scelta della lingua varia da caso a caso. Ci sono canzoni che “nascono” in italiano, altre che prediligono l’inglese. La cosa tra l’altro non provoca confusione o turbamento, ma dà un tocco di internazionalità al disco, nel quale si respira un’aria nord-europea. L’album è ulteriormente arricchito da due videoclip, diretti da Giuseppe Lanno. Si tratta di Ottanta e He was angry, accomunati da alcune caratteristiche simili: la protagonista femminile, con lo sguardo fisso e alienato, è immobile o, di contro, percorsa da movimenti che la investono, come un’onda. He was angry, in particolare, racconta una storia di violenza, dove una donna, alla guida di un’auto rossa, fugge attraverso la campagna. Alla fine il suo inseguitore, senza volto, la raggiunge: tra i due c’è un rapporto vincolante che, reso efficacemente nel video, li attira come fossero calamitati.
Il brano nasce da un’esperienza che l’autrice aveva nascosto nel profondo della coscienza e che, come accade di frequente con l’arte, riemerge con una forza dirompente. Le relazioni, soprattutto quelle difficili, complesse, sono protagoniste sottese a molti brani, tra i quali appunto And you can’t build the night. Qui l’immagine scelta – l’impossibilità di costruire la notte – rimanda proprio alla forma innaturale di certi rapporti, che spesso ci impegniamo a mandare avanti in maniera ostinata. Con spirito intimista, senza essere mai troppo ripiegato su se stesso, l’album di Diana ci accompagna in un percorso dove la musica, un’elettronica dall’anima folk, suscita emozioni dolci e melanconiche, come in una vecchia polaroid, piena di sorrisi felici e colori desaturati.
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XIII, n. 156, dicembre 2018)