Speranze e tormenti vissuti dal coraggioso sacerdote palermitano durante l’estate del suo assassinio, nel romanzo “Ciò che inferno non è” (Arnoldo Mondadori)
Saper cogliere un bagliore di luce anche in situazioni che oggettivamente ci appaiono atroci: questa era l’assoluta convinzione del sacerdote Giuseppe Puglisi (meglio noto come don Pino Puglisi), assassinato dalla mafia il 15 settembre 1993 nel quartiere palermitano di Brancaccio, dove era nato. Da alcuni anni vi si stava battendo per far avere alla sua gente nient’altro che la dignità minima: una scuola media e uno spazio protetto dove far giocare i ragazzi. E tale è anche l’assunto del nuovo romanzo di Alessandro D’Avenia, Ciò che inferno non è (Arnoldo Mondadori, pp. 317, € 15,00), che ripercorre gli ultimi tre mesi di vita del sacerdote.
Il sorriso innocente di un bambino valeva per il prete più di qualsiasi bruttura che la vita mostrava quotidianamente ai suoi occhi. La sua battaglia era ambiziosa e difficile: ribaltare una realtà radicalizzata da tempo memorabile secondo cui «lo Stato è un participio passato, mentre la Mafia è presente e futuro». Una convinzione portata avanti e difesa pur con mille difficoltà, oggettive e non. Particolarmente toccante è la disperata invocazione che, poco prima di morire, don Puglisi rivolge a Colui per il quale ha rinunciato a tutto: non essere lasciato solo. La sua lotta senza armi è stata interrotta nel giorno del cinquantaseiesimo compleanno. Gli esecutori dell’omicidio non sono più riusciti a dimenticare il peggior affronto che la vita potesse riservare loro: il sorriso redentore offerto dalla vittima, pistola puntata alla testa, un istante prima di morire; gli occhi di «un padre che corre incontro al figlio lontano da tempo… E in quello sguardo loro rivedono se stessi com’erano da bambini».
A fare da cornice alla quotidianità del sacerdote si inserisce quella di alcuni personaggi di Brancaccio. Donne e bambini, soprattutto: coloro che don Puglisi – chiamato affettuosamente 3P – chiamava “la mia famiglia”. Sono le stesse persone difese dal disagio sociale di una terra che talvolta non perdona la non appartenenza a una certa stirpe: Francesco, un bambino che abita con una madre costretta a prostituirsi e a fargli da padre; Lucia, una sedicenne che, sognando di diventare una regista cinematografica, supera il disagio della dignitosa povertà in cui versa con la sua numerosa famiglia; Totò, un bimbo che scorge nelle corde di una chitarra tutta l’armonia e la bellezza dell’esistenza. Tra loro si inserisce Federico, studente diciassettenne di don Puglisi: un adolescente della “Palermo bene”, quella che non deve fare quotidianamente i conti con minacce e soprusi.
Nell’estate del 1993 Federico decide – contro il parere della famiglia – di rinunciare a una vacanza-studio in Inghilterra. Don Pino gli ha chiesto da tempo di aiutarlo, indipendentemente dalla sua fede, a far giocare i bambini di Brancaccio, sottraendoli dalla strada. Quando il ragazzo varca il passaggio a livello che separa il quartiere dal resto della città, conosce una realtà che lo cambierà: la quotidianità finora vissuta era effimera. Al di là delle rotaie lo attende la vita vera, che lui difenderà con tanta forza d’animo; lì conoscerà anche l’amore, che altrettanto dovrà proteggere dalla prepotenza di chi non accetta la sua presenza nel sobborgo. Ciò che prova verso Lucia è un sentimento autentico, profondo e delicato, che di colpo lo fa maturare ben oltre i suoi diciassette anni. All’unisono sperimentano il desiderio di appartenersi, l’angoscia per un futuro insieme immaginato a fuggire dalla malvagità dei malavitosi, prima ancora che vissuto con la beatitudine di tutti gli innamorati. Ma la voglia di riscatto della loro esistenza vince su tutto, grazie al coraggio, una sorta di eredità lasciata loro da don Pino, da non disperdere per non rendere vana l’esperienza del sacerdote su questa terra.
Sapevamo che l’autore fosse palermitano, ma soltanto dopo aver letto il romanzo abbiamo colto l’incalzante ambizione di affrancare moralmente la sua terra. Fra le pagine dell’opera si scorgono la profondità delle proprie radici e l’orgoglio di appartenere a una città culturalmente inimitabile, costituita da un popolo che non perderà mai la forza di guardare avanti e di sperare in un futuro migliore, di intravedere un angolo di paradiso nonostante tutto l’inferno che è costretta a vedere ogni giorno. La vicinanza di D’Avenia al mondo giovanile si scorge nelle realistiche descrizioni delle inquietudini adolescenziali dei protagonisti, ma anche e soprattutto nella poesia con cui viene descritta la purezza dei loro sentimenti. Ciò che inferno non è si rivela un romanzo molto profondo, capace di parlare al cuore di tutti, credenti e laici. È una storia in cui l’assenza di suspense è dovuta alla preventiva conoscenza dell’epilogo di un avvenimento storico. Ma è ben compensata dallo stupore che si prova nel rendersi conto che per sentirsi felici bastano davvero pochi gesti, racchiusi in una semplicità che via via scompare con il trascorrere della vita.
Le immagini: la copertina di Ciò che inferno non è e una foto di don Pino Puglisi.
Emanuela Susmel
(LucidaMente, anno X, n. 110, febbraio 2015)