Una lettura critica del celebre libro di Robin Norwood edito da Feltrinelli
Recensire il libro più conosciuto di Robin Norwood (Donne che amano troppo, Milano, Feltrinelli) non è semplice, dato che una riflessione sul contenuto (inesistente) del testo implica anche alcune riflessioni sulle ragioni del suo (grande) successo. Di fatto l’autrice è riuscita a prendere di petto un problema grave ed estremamente diffuso (la sottomissione femminile, anche nelle sue versioni più esasperate e “patologiche”) senza però chiarire le manipolazioni psicologiche attuate dalle donne in tali relazioni sentimentali.
In pratica, il libro in questione non spiega le ragioni per cui molte donne “si cacciano nei guai” scegliendo uomini sbagliati e tenendoseli ben stretti. L’unica spiegazione che affiora è fasulla (un “eccesso” o magari una distorsione dell’amore) proprio perché occulta una lettura scomoda, ma realistica, dei fatti: quella secondo cui tali donne portano nel rapporto, senza rendersene conto, una loro carica forte distruttiva (espressa passivamente). In questo modo l’autrice, per semplice mancanza di cultura e di consapevolezza, ha fatto un’operazione intellettualmente scadente, ma commercialmente vincente. Un bravo professionista delle ricerche di mercato avrebbe potuto guadagnarsi la parcella offrendo proprio questo consiglio ragionato: poiché moltissime donne subiscono umiliazioni ma non vogliono ammettere le loro manipolazioni, un libro di successo può intercettare molte lettrici toccando il tema e può avere ulteriore successo tacendo le dinamiche vittimistiche e presentando le patologie relazionali come il risultato di un eccesso d’amore. Tale mago della vendita pilotata avrebbe potuto dimostrare che con tali accorgimenti nessuno avrebbe imparato nulla, ma tutti sarebbero stati contenti.
Se il vittimismo femminile non fosse così radicato e diffuso, le donne capirebbero davvero i loro problemi con gli uomini. In realtà, se non fossero così vittimiste non avrebbero grandi problemi da capire perché avrebbero costruito, proposto o imposto storicamente relazioni diverse con l’altro sesso. Proviamo, però, a togliere i “se” e guardiamo i fatti. Donne e uomini sono delle realtà “opposte” che possono felicemente “unirsi” (completandosi a vicenda) se cercano di essere felici. Purtroppo, spesso limitano questa possibilità perché perseguono scopi diversi da quelli che potrebbero ragionevolmente perseguire e perché limitano fin dall’infanzia le loro potenzialità. L’incastro fra la normale follia dei maschi e quella delle femmine ha, nella storia, determinato relazioni di coppia e istituzioni famigliari decisamente assurde. L’ultima follia della serie è la contestazione della follia maschile, manifestata da un punto di vista altrettanto folle (cioè “femminista”). Infatti, con il femminismo le donne hanno messo correttamente a fuoco l’esistenza di gravi problemi relazionali fra uomini e donne (dimostrandosi più acute dei maschietti), negando però qualsiasi responsabilità femminile in tale disastro storico e sociale. Con il femminismo, le donne sono riuscite a precludersi la comprensione dei problemi trattati, proprio attribuendo ogni responsabilità agli uomini. Questa posizione del tutto illogica e offensiva per la dignità femminile è la ciliegina sulla torta di una storia di “immobilità” e di incomprensione.
Il vittimismo è una malattia sociale e si riflette anche in coordinate culturali che non riguardano solo le donne, anche se “vanno molto a genio” alle donne. Molte persone non osano incazzarsi con un “povero bambino” anche se questo (ormai rovinato dai genitori) fa più casino di un gruppo rock e molte persone sono paralizzate dalla furia vittimistica di persone anziane o malate. L’idea che chi sta male possa essere responsabile o corresponsabile della situazione in cui si trova è un’idea che “non gira” facilmente nella nostra società. Se qualcuno la tira fuori viene linciato sul posto. Però, tra l’idiozia “mafiosa” secondo cui le donne se non sono sante sono puttane e l’idiozia di Ridley Scott secondo cui Thelma e Louise sono due anime pure alla ricerca della libertà non c’è molta differenza. Solo il radicamento dell’idiozia di massa rende possibili dei best seller come quello di cui mi occupo in questa recensione. Esso è un prodotto culturale particolarmente discutibile perché esprime non solo una corrente ideologica, ma un ipotetico punto di vista “clinico”. L’autrice, infatti, è proprio una professionista del settore. Una “brava ragazza”, evidentemente animata da pie intenzioni e che presumibilmente non ha ascoltato i consigli di papà se questi le suggeriva di andare a lavorare anziché intestardirsi a completare gli studi.
Il libro costituisce un’operazione culturale distruttiva perché, essendo stato ben confezionato e lanciato sul marcato in modo efficace (dalla scelta del titolo alla scelta del prezzo), ha “dato il colpo di grazia” alle donne ancora tormentate da dubbi. Infatti, una donna che cerca un libro su quell’argomento evidentemente prova un disagio personale e potrebbe essere aiutata. Non è, cioè “irraggiungibile”, non è “persa” nella posizione di chi si fa del male e vuole “stare lì”. È in qualche misura aperta a sollecitazioni costruttive. Se però la brava ragazza psico-esperta evita di dire le verità scomode ma importanti, finisce per riportare “a cuccia” chi potrebbe iniziare un percorso di consapevolezza. Dovremo perdonare molte cose anche all’autrice, perché dopo tanti anni di psicoterapia personale e di esercizio della psicoterapia sulle sue pazienti, deve avere molta paura di sentire qualcosa, se continua a pensare tante stupidaggini e a scriverle.
Mi spiace essere così dura con la Norwood. Non le parlerei con questo tono di persona, dato che lei, nella postfazione, trasmette in modo toccante qualcosa del suo percorso. Nonostante le confusioni terrificanti che ha in testa sull’amore e anche sul sesso, sembra sinceramente mossa da uno “spirito di servizio” e da una sincera speranza di essere d’aiuto. A pagina 306, spiega di aver compiuto un “percorso di guarigione” personale proprio partendo da stati di depressione e disperazione e di voler donare ad altri l’aiuto ricevuto. Questo è un sentimento nobile ed anche sincero. Va rispettato così come vanno rispettati tanti “caduti per la patria” che però avrebbero fatto meglio a fare obiezione di coscienza assieme a milioni di altre persone. Inoltre, in queste ultime pagine l’autrice trasmette un mix “appiccicoso” di confuse convinzioni psicologiche e religiose che risultano davvero sconfortanti, grazie alle quali la “guarigione” da lei immaginata si associa alla “sottomissione” a una “Personalità Superiore” (p. 305). Probabilmente ha smesso di “amare troppo” i suoi partner e ha continuato ad “amare troppo” la propria professione e la sottomissione su altri piani. Conosco persone religiose che inorridirebbero all’idea di usare il concetto di “sottomissione”, ma per la Norwood tali assurdità sono normali. Devo essere dura nella recensione (pur rispettando il fatto che in un modo o nell’altro questa donna sia uscita dal suo profondo disagio personale), semplicemente perché questa collezione di castronerie è un best seller che continua ad essere letto. Ad alcune donne può essere anche di qualche utilità, così come qualche mese di cassa integrazione è meglio di niente per chi si trova sul lastrico, ma credo che per chi “gira a vuoto” servano strumenti validi di riflessione e non dei minestroni di stupidaggini condite con qualche frase sensata.
Il primo errore del libro sta nel titolo: mancano le virgolette prima e dopo la parola “amano”. Con le virgolette un buon libro dimostrerebbe di mettere in discussione l’amore fasullo delle donne vittimiste. L’errore dalla Norwood, però, non è formale ma concettuale e quindi la saggista, omettendo le virgolette, fa la cosa giusta, dato che pensa la cosa sbagliata. Il suo primo caso clinico ne è la prova. Farò una sintesi con le mie parole, perché quelle usate dall’autrice nascondono il vero problema di questa donna “troppo amorosa”. Jill (la paziente in analisi) è una di quelle donne insopportabili con la “sindrome dell’infermiera”. Dopo la prima notte d’amore con Randy (una “boccia persa” da ascoltare cinque minuti al bar e da lasciare sul posto immediatamente), Jill gli stira la camicia prima che lui si alzi da letto. E perché? Lo spiega lei stessa “Mi piace accudire un uomo” (p. 19). Insomma, hanno appena iniziato a far sesso e lei punta la sveglia all’alba per fare la stiratrice. Cosa cerca questa furbacchiona?
Sembra che lo scopo della sua vita sia quello di asfissiare le “proprie vittime” che la sopportano solo perché stira e cucina più di una filippina ricattabile in quanto priva del permesso di soggiorno. Telefonate continue per sapere come vanno i suoi viaggi (dato che lei è ansiosa), per consigliarlo di non stancarsi troppo, per suggerirgli di “tornare da lei” al più presto. Questa è la situazione, ridotta all’osso, ma il racconto include altri dettagli interessanti. Il suo “tipaccio” ovviamente si faceva gli affari propri, ma ciò la rendeva ancor più “disponibile”. Si davano un appuntamento, lui le tirava il bidone e lei attaccava con le telefonate. Quando finalmente lo trovava, lui per “giustificarsi” diceva di essersi dimenticato e lei concludeva immancabilmente con l’angosciata domanda: «Come puoi dimenticarti?» (p. 20). Il suo partner era un alcolista e lei “faceva l’oca”. Infatti spiega alla sua psicologa (abbastanza acuta da ipotizzare il problema): «Veramente, quando eravamo assieme beveva sempre, ma pensavo che semplicemente gli piacesse bere. È normale, no?» (p. 21). Il rapporto andò avanti in questo modo finché lei cadde in un profondo sconforto verificando che tutto il suo amore cozzava con atteggiamenti di insensibilità e di indifferenza. Se fosse stata africana, questa donna si sarebbe iscritta alla Lega Nord e avrebbe portato pasticcini a tutti quelli delle ronde.
Ciò che preoccupa non è solo che certe persone cerchino qualcuno che le tratti male, ma che certe “esperte” offrano il loro “contributo” con un’ingenuità che fa cadere le braccia. In realtà, ogni tanto la Norwood formula un pensiero sensato, come quando parla di un “attaccamento ossessivo a un uomo” e della “pretesa di chiamare amore questa ossessione” (p. 22), ma poi ripetutamente mostra di concepire la sua paziente come “incapace” di fare qualcosa, o di capire una situazione o di cambiare. In pratica la Norwood tratta la sua paziente come una povera tonta da far “rinsavire”. Esagero? Vediamo cosa scrive: «Alla base del comportamento delle donne che amano troppo c’è questa menomazione. Si diventa incapaci di discernere se qualcuno o qualcosa non fa per noi» (p. 23). La parola “menomazione” è una parola grossa che non lascia spazio a riflessioni sulla responsabilità individuale nelle relazioni complicate. L’autrice, infatti, non tratta la sua paziente come una persona che con il suo partner sta costruendo una relazione assurda, per qualche oscura ragione “utile” a entrambi. Tratta Jill come un’ingenua che si caccia nei guai e che ha bisogno dell’incoraggiamento della psicologa per “rafforzarsi” e smettere di cercare a tutti i costi l’amore (inteso ovviamente come l’amore di quel cattivone di papà che non ha mai appagato la sua sete). A pagina 28, però, la Norwood riporta una cosa interessante. Molto tempo prima di conoscere Randy, Jill aveva sperimentato un anno di convivenza (ovviamente disastrosa su tutti i piani) con un altro bel tipo (Paul) e la madre di Jill aveva cominciato ad “innervosirsi” per tale relazione irregolare. Jill convinse Paul a sposarla e continuò ad asfissiare questo baldo giovanotto, ottenendo risposte non esattamente apprezzabili: «Ero così sicura che sarei riuscita a far funzionare il nostro matrimonio se solo ce l’avessi messa tutta ma, a volte, quando tornava dopo una delle sue sparizioni, mi arrabbiavo e allora lui mi picchiava» (p. 29).
Storie come queste sono davvero inquietanti e anche nei casi in cui non si arriva alla violenza fisica determinano una quotidianità disastrosa. Non è l’atteggiamento “protettivo” di psicologhe che “amano troppo” le loro pazienti che può aiutare le donne a non infilarsi in tunnel senza luce. Non è certo “l’autocoscienza femminile” che può fornire gli strumenti di un cambiamento. Non a caso, la presentazione di questo libercolo di successo è stata affidata alle cure di Dacia Maraini e in questa introduzione si trova la stessa contraddizione fra buone intenzioni e cattive spiegazioni che attraversa il libro. Giustamente, la Maraini scrive: «Con questo tono pratico e dimesso la Norwood riesce a dirci alcune cose profonde e acute. Per esempio che, quando amiamo troppo, in realtà non amiamo affatto» (p. 9). Purtroppo, se Robin Norwood avesse davvero capito che le donne che “amano troppo” in realtà non amano affatto, avrebbe messo le virgolette nel titolo del suo libro. È però positivo che la Maraini abbia colto questa idea profonda e sottolinei che il “troppo amore” non ha nulla a che fare con l’amore. Purtroppo, dopo poche righe, la Maraini della presentazione torna a volar basso e accoglie le spiegazioni semplicistiche e vittimistiche della Norwood: «Quasi sempre, all’origine dell’eccesso d’amore femminile c’è un trauma infantile. Se una bambina è stata trascurata o abbandonata dal padre, tenderà a trovare un uomo che la trascuri e la abbandoni».
Questa troppo semplice concatenazione fra una causa e un effetto, nei romanzi gialli porta sempre il detective (e il lettore) a cercare in un’altra direzione, ma nelle questioni sociali e psicologiche, in genere le persone preferiscono fermarsi alle apparenze: i meridionali lavorano poco perché sono indolenti, i criminali commettono crimini perché sono cattivi, gli adolescenti sono ribelli perché attraversano l’età difficile e le donne amano troppo perché cercano l’amore di papà.
Questi luoghi comuni e amenità attraversano la cultura di massa e non possono essere contestate facilmente perché sono “comodi”. Mentre quando leggiamo un romanzo giallo drizziamo le antenne appena la prima spiegazione “elementare” viene suggerita, quando affrontiamo questioni psicologiche, interpersonali e sociali vogliamo dar credito alle interpretazioni più “facili”. In questo modo accettiamo un falso ordine elementare delle cose che ci evita la fatica di scavare nelle nostre responsabilità. Dunque, i meridionali non vogliono lavorare, i criminali sono cattivi, i ragazzi sono immaturi e le donne sono delle povere vittime.
L’immagine: la copertina del saggio della Robin Norwood.
Elisa X (adattato da Tempovissuto, per gentile concessione della rivista)
(Lucidamente, anno VI, n. 61, gennaio 2011)
Non ho letto il libro ma, dalla recenzione, ho paura che il problema della Norwood, grave presupponendo la sua buona fede, sia soprattutto legato alle sue distruttive credenze religiose…
mi correggo: “recensione”, scusate…dopo aver fatto così gravi affermazioni non vorrei essere tacciata di ignoranza per una Z al posto di una S…
Ho appena letto il libro.
In parte dà consigli di buon senso, ma in parte è distruttivo: si deve decidere, riguardo ad una relazione, se portarla avanti oppure no: se si decide di portarla avanti nonostante i suoi aspetti problematici (cosa possibile, visto che le relazioni perfette non esistono), come si può vivere con una persona e , nello stesso tempo, assumere un atteggiamento “zen” di totale indifferenza nei suoi confronti? E’ vero, bisogna “prendersi i propri spazi”, ma come fai a rispondere “ah, sì?”, e poi mettersi a dormire, quando c’è una siuazione conflittuale? Le situazioni conflittuali vanno affrontate, altrimenti si moltiplica lo stess.
Inoltre, come è possibile non dipendere assolutamente da una persona in un rapporto d’amore? Essere assolutamente autosufficienti e, nello stesso tempo, “aprirsi” totalmente all’altro? Io penso che, per alcuni aspetti, questo libro risenta di una ideologia “vetero-femminista”.