Come si vive sotto lo stato islamico se si appartiene al genere femminile
Nero come il buio quando non c’è nemmeno uno spiraglio di luce. Soffocante come una stanza chiusa senza finestre. Così è la veste delle donne di Raqqa, che dal 2013 vivono sotto il terrore del regime islamico di Daesh. Così è la loro condizione, quella di donne che esistono, ma non vivono.
Nell’aprile 2013 Raqqa era la sesta città della Siria, capitale della Rivoluzione e simbolo di una libertà tanto agognata e mai raggiunta. La speranza si è persa quando l’Isis ha voluto includere la Siria nel proprio piano di conquista: a Raqqa non ci sono più le adolescenti che vestono abiti occidentali e frequentano le scuole miste: ora ci sono solo fantasmi neri che raramente camminano per strada. Non si respira più l’aria di rivoluzione. Proprio le donne sono quelle che hanno subito di più da quando Daesh si è insediato in Siria. Il regime dell’autoproclamatosi califfato ha un’idea ben precisa per le donne: la loro vita è in casa, al servizio del marito e di Dio. Al fine di illustrare le regole di vita della perfetta donna Isis, il 23 gennaio 2015 è stato pubblicato su un forum on line di miliziani dello Stato islamico il Women in the Islamic State: manifesto and case study.
Questo opuscolo è un vero e proprio manuale semiufficiale, redatto dalla brigata Al-Khanssaa, un battaglione speciale di donne fedeli a Daesh. Il gruppo in questione è un organo dello stato che raccoglie donne integraliste con lo scopo di far rispettare le regole del califfato; le attiviste sono pagate 140 euro al mese, e il loro compito è quello di girare per la città e punire chi non rispetta le linee guida dettate dal regime.
Esecuzioni, fustigazioni e crocifissioni per sedare le insurrezioni sono all’ordine del giorno, dal momento che la violenza e il terrore sono le armi predilette dei miliziani. Le donne nei territori controllati da Isis non hanno per niente vita facile. Secondo le regole della perfetta donna di Daesh, esse non possono uscire di casa, se non accompagnate da un familiare stretto di sesso maschile, e devono indossare la nuova veste voluta dal regime, il niqab. Il diktat per l’abbigliamento femminile, obbligatorio dopo la pubertà, consiste nell’indossare due abiti che coprano le forme del corpo, i guanti per occultare le mani e tre veli per nascondere il viso e gli occhi. Ma le imposizioni sono innumerevoli: alle donne in pubblico è vietato l’uso del profumo, scoprirsi il corpo, alzare la voce, indossare scarpe con il tacco.
La punizione è quasi sempre la morte: famosi alcuni casi di esecuzioni su donne ad opera della brigata Al-Khanssaa: dalla donna giustiziata perché allattava il figlio neonato in pubblico, a quella stuprata e arrestata perché non indossava il niqab. Per l’Isis l’unica ragione di vita della donna è occuparsi della famiglia, e obbedire al proprio marito, ed è per questo che il matrimonio è pratica diffusa già dai nove anni.
Ancora diverso è il caso delle donne yazide, che vivono in condizioni persino peggiori: rapite a migliaia dalle terre a confine con l’Iraq, sono vendute come schiave ai soldati, che le sfruttano sottoponendole a continue violenze e abusi, ad ogni ora del giorno. La triste storia di queste donne ormai è diffusa anche nel mondo occidentale, grazie al prezioso lavoro di un gruppo di attivisti anti Isis, che ogni giorno rischia la propria vita per liberare le yazide dai campi di prigionia in cui sono rinchiuse queste schiave del sesso. «C’è molto sole sui paesi dell’Islam: un sole bianco, violento, che accieca. Ma le donne musulmane non lo vedono mai: i loro occhi sono abituati all’ombra come gli occhi delle talpe. Dal buio del ventre materno esse passano al buio della casa coniugale, da questa al buio della tomba. E in quel buio nessuno si accorge di loro». Non è cambiato molto dagli anni Sessanta, quando Oriana Fallaci scriveva il libro-inchiesta Il sesso inutile (Rizzoli, 1961). Ad oggi, infatti, non c’è ancora luce per le donne islamiche.
Alice Scaglioni
(LucidaMente, anno XI, n. 127, luglio 2016)