La lapide era sempre stata lì, ma io me ne accorsi per la prima volta: QUI FU ASSASSINATO VIGLIACCAMENTE IL DOTTOR MICHELE PONTICELLI, IL 13 LUGLIO 1895.
Era una vicenda antica, di un’epoca lontanissima, quando tutto aveva un altro sapore: c’erano ancora i galantuomini, i briganti sulle strade polverose, percorse dai carri trainati da cavalli, asini affaticati, muli recalcitranti.
La notte allora era di un buio denso, l’amore era una questione fondamentale: crudeltà e i panni sporchi erano celati, lavati tutti in famiglia.
Mi scordai della lapide e me ne tornai a casa dopo la passeggiata serale.
Tutto andava per il meglio: ero un vedovo con figli sposati, vivevo solo, ma ero sereno, senza preoccupazioni.
Il passato era defunto per me, non mi interessavo di vecchie faccende, ma Michele Ponticelli e il suo caso lo conoscevo: mio padre me ne aveva parlato. Non mi aveva narrato della sua fine tragica. Mi aveva semplicemente detto che era stato un usuraio, uno che molti odiavano.
Dormii male quella notte, sognai l’assassinio di un vecchio con abiti contadini, grasso e calvo. Due uomini prima lo insultavano, poi lo colpivano ripetutamente con un bastone, con tanta ferocia.
Fu una visione truculenta, piena di sangue. Era una strada di campagna sotto un cielo terso e stellato, con lo sfondo luminoso di quella che doveva essere stata la città vecchia, non ancora ampliata sino alle attuali dimensioni. Più che un sogno pareva la ricostruzione probabile di quello che era stato allora il luogo del delitto.
La mattina dopo decisi di sapere di più sul caso.
Andai alla biblioteca comunale e feci una ricerca sui quotidiani dell’epoca: Ponticelli era un noto commerciante, un ricco contadino che aveva accumulato un grande patrimonio prestando denaro ai ricchi e ai poveri. Si era così impossessato di molti terreni, che aveva sfruttato con metodi da schiavista pretendendo l’impossibile dai suoi braccianti. Lo odiavano in molti e, nonostante la sera in cui venne commesso l’omicidio vi fosse stata una festa patronale, non si erano trovati testimoni.
Finalmente i gendarmi avevano scovato due sospetti: fui sorpreso, si chiamavano Gentioni, che era il mio cognome.
C’era stato un processo ed erano stati assolti per mancanza di prove, ma morirono in modo misterioso, travolti da un calesse guidato da uno sconosciuto proprio nella via in cui era avvenuto il delitto per il quale erano stati sospettati.
Fu un omicidio o un incidente?
Il giornale non diceva altro.
Allora ricordai: mio padre mi disse che suo nonno e il fratello di suo nonno morirono nello stesso modo sospetto. Non avevo dubbi: ero il discendente di probabili assassini.
Non era una notizia da riempire di gioia, ma il tempo era passato, tutto apparteneva ai morti. Eppure c’era ancora un legame con il passato, possedevo le terre del morto: campi floridi ereditati di generazioni in generazione.
Feci delle ricerche in archivio e scoprii che quei terreni erano entrati nella causa penale: si riteneva che fossero stati acquistati con un prestito ad usura concesso dall’assassinato.
Era il movente dell’omicidio e io ne ero l’ultimo proprietario. Era una tenuta sporca di sangue, ne percepivo l’illegittimo possesso, la maledizione che gravava su essa.
L’incubo dell’omicidio si ripeté per diverse notti: avrei dovuto vendere il terreno e dare tutto in beneficenza. Non avevo un legame stretto con quella terra, era un fastidio quella proprietà: nonostante la qualità del terreno e la posizione favorevole, ultimamente mi rendeva poco e l’avrei abbandonata volentieri al suo destino.
Mio padre mi fece giurare sul suo letto di morte che non avrei mai ceduto le terre di famiglia, per nessun motivo.
Ero indeciso, ma la sorte venne in mio soccorso: il parroco cercava un luogo dove costruire la nuova chiesa, così gli donai con sollievo la mia tenuta. Ero certo di aver fatto la scelta giusta.
“Il benefattore della Parrocchia, che ha donato il campo per la nuova chiesa, è deceduto questa notte, dopo una lunga e angosciosa agonia.
Prima di morire mi ha pregato di non scavare in un punto del terreno, ma le ruspe erano già giunte.
Fu rinvenuta una botte, sicuramente incatramata bene per giungere a noi, contenente abiti del secolo scorso. Un attento esame ha permesso di scorgere tracce scure, che qualcuno dice di sangue. C’era pure un foglio ingiallito con la confessione di un omicidio antico e la richiesta del perdono divino.
Il povero benefattore, probabile discendente degli assassini, era convinto che quella colpa atavica gli gravasse sulla coscienza: morì chiedendo perdono ad alta voce a un certo Michele Ponticelli.
Il poveretto aveva pronunciato le sue ultime parole come se stesse vedendo davanti a sé il suo interlocutore: La terra del morto, il campo del sangue sparso non è più mio, ora devi lasciare in pace me e i miei discendenti“.
(Il delitto)
Arduino Rossi
Poeta, pittore, autore di saggi, racconti e romanzi brevi, ha visto pubblicate diverse sue opere, come le due raccolte La rosa di gennaio e Storie d’altri tempi raccontate attorno al camino. Recente sua fatica, costellata da una vena ironica: Gli statali. Gioie e dolori per il posto fisso (Morpheo edizioni).
IL COMMENTO CRITICO
Una lapide, dal nulla – Non se n’era mai accorto, della lapide, ma da quel giorno mille dubbi e domande inquietano la sua tranquilla e serena esistenza.
Una passeggiata, in un giorno qualunque, può cambiare il corso degli eventi, può sconvolgere la vita di un uomo.
Un salto nel passato – Dapprima la ricerca tra i ricordi, qualche sprazzo di luce, qualche flebile ricordo. Poi i giornali, con le indagini ufficiali e le notizie dell’epoca. Come se la smania di scoprire le proprie radici fosse un obbligo, come se quella lapide lo avesse ipnotizzato. Rapito da un passato che incatena, anche il presente ne risente, resta il timore per il futuro, che si cerca di placare con una sorta di indiretto atto di risarcimento.
Lucidità e grovigli borgesiani – La tensione è accompagnata da uno stile chiaro, lucido e diretto, da una struttura narratologica costituita da due narratori interni diversi, per raccontare un groviglio tra passato e presente, supposizioni e ricordi, prove e intuizioni, etica e ansie nevrotiche. Una forma cristallina, dal ritmo pacato, e una tematica – lo scavo nei celati, antichi misteri della propria famiglia – che ci hanno ricordato alcuni racconti di Jorge Luis Borges.
L’immagine: particolare di 20 marzo 2005, del nostro fotografo Giordano Villani.
Marika Bentivogli
(LucidaMente, anno III, n. 26, febbraio 2008)