Una coppia, composta da un giornalista italiano e dalla sua compagna rumena in vacanza in Svizzera, scopre accidentalmente il corpo senza vita di un uomo col torace squarciato da una roccia: si tratta di un ebreo di nome Saul Veil, al quale la donna sottrae ciò che sembra una comune scheda telefonica… Ecco l’incipit de La polvere eterna di Giovanni Nebuloni (collana La scacchiera di Babele delle Edizioni di LucidaMente, pp. 226, € 16,00), che vi proponiamo come “assaggio”.
Il romanzo, nel suo seguito, combina avventura, fantapolitica, esoterismo, spy story, in una miscela affascinante e chiaroscurale, composta da fulminei colpi di scena e da sorprendenti stratificazioni narrative all’interno delle quali si collocano ambienti tentacolari e si muovono personaggi sfuggenti.
“Fa’ presto, corri!”.
L’urlo aveva rotto il silenzio e l’eco si perdeva oltre l’aliante che planava sulle cime del Bernina. L’uomo lo scorse prima di volgere lo sguardo alla moglie.
Correre? La pendenza del sentiero impervio era almeno del quindici per cento e dopo un’ora di marcia non aveva la forza e la voglia di correre. Contro il pendio che si curvava dapprima ampio e maestoso e che all’improvviso si ergeva in verticale e come schiacciato sotto il pizzo, la piccola figura di Diana era sola e immobile. Non era da lei gridare al lupo senza motivo, ma che rischi potevano esserci a non più di tre chilometri dal rifugio?
Diana chiuse gli occhi. Le mancava l’aria e cercò di respirare profondamente, ricordando di avere un grembo liscio e armonioso, perfetto se non fosse stato una porta sul vuoto. Non avevano ancora un figlio e non erano sterili, non avevano difetti. Tuttavia qualcosa non funzionava. Non era ancora incinta e desiderava avere un bimbo come il pane e l’aria. Ecco che arrivava, l’aria, pungente e morbida. Si era levato un vento secco che portava un odore acido e di miele, zuppa, ciorb%26%23259; andata a male.
“Cefas!”.
Il “suo nome” la fece trasalire. Vide che il marito era a qualche metro da lei e che ansimava. Non conosceva le ragioni che impedivano la venuta di una nuova vita e cos’era l’odore che svaniva, ovviamente in “Cefas” però si riconosceva. Era l’ultimo soprannome che le aveva affibbiato e derivava dall’intercalare nella lingua natale, quando diceva “Cè fas fa“, che, scritto “Ce faci f%26%23259;“, significava “come stai”.
Come stava l’uomo nel crepaccio?
“Guarda”. Giorgio le si accostò e le strinse un poco un braccio. Nella fenditura della montagna, sulla neve e tra le rocce marroni e grigie, c’era il corpo di un uomo con la schiena verso il cielo. “Non si vede sangue”.
“Ce n’è sicuramente in quantità” disse Giorgio. “La roccia di mezzo metro su cui è finito gli ha squarciato il torace. La punta del cuneo l’ha passato da parte a parte e gli è uscita dalla schiena, sollevando la giacca per qualche centimetro. Ecco perché non si vede”.
“Avrà sofferto molto?”.
“E’ morto all’istante. O meglio, immediatamente dopo l’impatto con la roccia appuntita perché è caduto da lassù”. Giorgio indicò uno sperone di granito cinque metri sopra loro e venti sopra il cadavere. “Doveva essere ancora vivo quando ha picchiato su quel masso sporgente. Vedi la neve spazzata in quel punto? Quindi è precipitato sulla roccia”.
“Non è uno dei modi migliori per andarsene”.
“Dobbiamo chiamare il soccorso alpino, o la polizia”.
“Stai pensando a un omicidio?”.
“Perché?”.
“Tu conosci gli omicidi meglio di me” considerò Diana. “Potresti anzi prendere appunti o dettare un articolo”.
“Non voglio rubare il mestiere a nessuno e questo non può interessare il giornale. Inoltre, mi occupo di vicende milanesi o provinciali, cronaca spicciola e propriamente non omicidi, anche se strada facendo non ho potuto evitarne”.
“Vado a vedere” informò Diana, liberandosi della mano del marito, che esclamò: “Fermati!”. Ma Diana non l’udì neppure. Scivolò rapidamente nel crepaccio scosceso e, a un metro dal cadavere, protendendosi e piegandosi con la testa, senza avanzare oltre con i piedi, osservò che la bandiera al vento era sostenuta soltanto dall’ariete di pietra che come una trivella gli aveva scavato il tronco, dracula goloso, succhiandogli la vita. Quello che era stato un uomo era piegato ad arco su se stesso e sembrava ondeggiare, gli arti penzoloni. Aveva la barba ed era bianca come i capelli. Sulla bocca c’era un dito di schiuma gialla e rossa e sulla fronte una tumefazione bluastra. Una grossa goccia di sangue scuro e denso stava per cadere dal naso adunco e largo alla base. Le orecchie erano molto allungate. Gli occhi erano sbarrati ed era come se le iridi fossero scomparse: erano completamente bianchi. Sulla terra, sulle rocce, anche su un ciuffo d’erba secca, c’era un mare di sangue fresco. Senza volgersi, continuando a guardare, fece un passo indietro. Sentendo che il marito le era giunto accanto: “Cos’è quella cosa rotonda?” domandò.
“Una kippot”. Sul terreno, a un metro dalla testa del cadavere. “Il copricapo che usano gli ebrei, con significato religioso. Ha decorazioni sul perimetro, blu al centro e lavorata in oro, forse oro vero. Non toccarla. Non toccare niente”.
(da La polvere eterna di Giovanni Nebuloni, Edizioni di LucidaMente)
L’immagine: La polvere eterna, elaborazione grafica di Matteo Scanavini.
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno II, n. 4 EXTRA, supplemento al n. 14, 14 febbraio 2007)