110 anni fa moriva uno tra i pionieri nel campo degli studi sui processi di memorizzazione umana
Il 26 febbraio 1909 si spegneva lo psicologo tedesco Hermann Ebbinghaus, autore del saggio Sulla memoria (1885). Il suo interesse per la psicologia non è subito manifesto. Infatti, all’inizio del proprio percorso universitario, intraprende studi storici e filologici presso la Facoltà di Bonn. In seguito, la sua attenzione si sposta verso altri ambiti disciplinari e si laurea con una dissertazione sulla filosofia dell’inconscio.
Qualche tempo dopo, caso vuole che s’imbatta in Elementi di psicologia di Gustav Theodor Fechner, il libro ispiratore per le successive ricerche. Queste durano ben cinque anni, durante i quali egli conduce esperimenti su se stesso, senza avvalersi di alcun assistente. Inizia a imparare a memoria liste di sillabe prive di senso (circa duemilatrecento trigrammi composti da consonante-vocale-consonante). Ovvero, una tipologia di stimolo intenzionalmente neutro perché lo scopo era di ridurre le interferenze subconscie e di osservare la memorizzazione meccanica. In questo modo ha cercato di ricostruire meccanismi di associazione passiva che prescindono dai significati e dalle esperienze. I risultati raggiunti sono sommariamente validi tutt’oggi. Ebbinghaus, infatti, scopre che la memoria a breve termine ha una capacità limitata e quindi, in media, non può contenere più di sette chunks (pezzi), cioè informazioni. Quando ne entra una nuova, una vecchia esce.
Lo studioso riesce anche a dimostrare, per la prima volta, l’effetto seriale. Ciò implica che, all’interno di un contesto d’apprendimento, esista una maggiore probabilità di memorizzare le lettere iniziali e finali dell’elenco di sillabe rispetto a quelle che si trovano nel mezzo. Altra conferma molto importante è stata l’accertamento della limitata efficacia che ha il super apprendimento (sessione unica e prolungata di memorizzazione), in favore di uno distribuito in più sessioni.
Infine, un ulteriore merito di Ebbinghaus riguarda la costruzione di un grafico che indica come svanisca la memoria via via che il tempo passa. Tale realizzazione prende il nome di curva dell’oblio ed è stata il frutto di esperimenti rigorosi. Lo studioso imparava una lista di triplette fino a ricordarle perfettamente. Poi tentava di rievocarle a intervalli sempre più distanti: dai 20 minuti sino a 31 giorni. Risultava che gran parte del ricordo si perdeva nelle immediate ore successive (il 40% dei dati solo dopo mezz’ora). Nei giorni e nelle settimane seguenti, poi, l’oblio avanzava in maniera enormemente rallentata e stabile. Tali risultati, però, non corrispondono completamente alla nostra esperienza; infatti, fanno evidentemente eccezione il patrimonio lessicale, le facce delle persone e gli episodi del vissuto. Altre ricerche, avvenute dopo quella dello studioso tedesco, hanno perciò verificato come nella quotidianità l’oblio sia più lento. Ebbinghaus dimenticava gran parte delle conoscenze e molto in fretta perché il suo sforzo era particolare. Particolare per ciò che apprendeva, per il modo e per il tempo prolungato al quale era esposto in queste sessioni.
È certo che il suo studio sia esemplare per il rigore scientifico con il quale è stato condotto. Peccato che il materiale preso in esame fosse senza senso e che si trattasse di considerare solo un tipo di ripetizione: quella pappagallesca. In effetti, la nostra memoria funziona proprio per mezzo della concettualizzazione, organizzazione e rielaborazione dei significati. Quindi, se Ebbinghaus è riuscito a ricordarsi le sillabe è stato perché probabilmente, in maniera del tutto involontaria, ha dato loro un senso completamente personale.
Arianna Mazzanti
(LucidaMente, anno XIV, n. 158, febbraio 2019)