Dal Trattato di Maastricht a quello di Lisbona: per ricordare luci (poche) e ombre (tante dell’Unione). E, dopo il 26 maggio, con ogni probabilità, per salvarsi dall’ondata euroscettica populista e sovranista, ci sarà l’ammucchiata Ppe-Pse-Alde
Il 26 maggio 2019 gli italiani aventi diritto verranno chiamati ad eleggere i propri rappresentanti al Parlamento europeo. A causa della riassegnazione avvenuta dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, all’Italia spetteranno 76 seggi, tre in più rispetto al 2014. Negli ultimi mesi, i leader dei vari partiti politici hanno sostenuto l’importanza di queste elezioni, come se potessero rappresentare uno spartiacque del destino dell’Europa. Prima di arrivare a conclusioni affrettate, cerchiamo di capire cosa sia l’Unione europea e cosa rappresentino le sue istituzioni.
L’Unione europea che conosciamo oggi è nata grazie a una serie di trattati, il più noto è quello che fu firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992. Negli accordi erano previste misure simboliche – come la cittadinanza europea, il passaporto unico – unite a un processo di riorganizzazione della Comunità. La scelta più importante fu quella di procedere nella direzione dell’unione monetaria fra gli Stati membri. Nel dicembre del 2007 fu ratificato il Trattato di Lisbona, grazie al quale l’Unione europea assunse una personalità giuridica internazionale. Il potere legislativo veniva ripartito fra Commissione, Parlamento e Consiglio. L’Europarlamento rappresenta i popoli dell’Unione europea ed è l’unica istituzione a essere eletta direttamente dai cittadini. Tuttavia, esso può solo approvare o respingere le proposte di legge, senza avere la facoltà di introdurre emendamenti nel testo. Il Consiglio europeo definisce gli indirizzi politici generali dell’Unione e comprende i capi di Stato o di governo degli Stati membri, il presidente del Consiglio europeo – eletto da quest’ultimi – e il presidente della Commissione europea.
La Commissione, oltre a essere promotrice del processo legislativo dell’Unione europea, è anche il suo organo esecutivo. Essa è composta da un delegato – detto commissario – per ogni Stato membro. Sia il presidente che i commissari devono essere approvati dal Parlamento. Il Trattato prevede un maggiore coinvolgimento dei parlamenti nazionali, che devono essere informati dei provvedimenti più rilevanti adottati dall’Unione, la possibilità del ritiro di uno Stato dall’Unione e l’eventualità di sottoporre agli organi dell’Unione proposte di legge supportate dalla raccolta di almeno un milione di firme.
Gli scenari possibili dopo le elezioni sono due: la vittoria dei partiti euroscettici o quella dei partiti tradizionali, legati da una profonda cultura europea. Il primo risultato è improbabile in quanto i partiti euroscettici difficilmente avranno la maggioranza, composta da 353 deputati. L’unica realistica possibilità è quella costituita dalla triplice alleanza tra il Partito popolare europeo (Ppe), il Partito socialista europeo (Pse) – e i liberali (Alde) – anche se, rispetto al 2014, queste forze sono date in calo dai sondaggi. In ballo non c’è solo la composizione del Parlamento; cruciale sarà anche la nomina a presidente della Commissione che si troverà fin da subito ad affrontare temi delicatissimi, come la crisi migratoria, lo stallo della crescita di alcuni paesi dell’Eurozona, la Brexit. L’Europa come istituzione raccoglie sempre meno consensi tra le popolazioni. Certamente ha le proprie responsabilità: le politiche di austerità sono state severe e hanno contribuito ad allontanare i cittadini. La grave crisi migratoria e la mancata cooperazione tra i Paesi membri hanno fatto sì che gli organi di potere europei fossero visti solo come i palazzi delle élites, dove le decisioni vengono prese senza tener conto della sovranità degli Stati.
I partiti tradizionali potrebbero trovare una maggioranza in Parlamento, ma ciò non basterà; l’Europa deve cambiare, riformarsi, rivedendo alcune parti dei trattati, in modo che i cittadini si sentano partecipi. Non dimentichiamo però che l’Unione europea è formata da singoli Stati, non è un ente astratto. Tutte le politiche europee devono essere approvate all’unanimità dal Consiglio prima ancora che dal Parlamento. Determinati progressi, come la stesura della Costituzione europea, sono stati abbandonati per il volere di singole nazioni. Non è l’Europa a essere fragile, siamo noi che ci siamo indeboliti credendoci forti all’interno dei nostri confini nazionali.
Paolo Romoli
(LucidaMente, anno XIV, n. 161, maggio 2019)