Mi propongo di fare alcune riflessioni su un’esperienza molto frequente che tuttavia, per quanto mi risulta, non è oggetto di particolare attenzione da parte di filosofi o psicologi. Userò l’espressione “estetica del buono” per parlare del fatto che certi gesti di benevolenza, amore, cura verso qualcuno possono suscitare in chi li osserva sensazioni piacevoli e interiormente appaganti. Tali sensazioni sono diverse da quelle provate osservando qualcosa di apprezzabile sul piano estetico, ma sono simili alle esperienze di fruizione del bello per il loro carattere contemplativo e “disinteressato”.
Sono un po’ imbarazzato a sviluppare un tema che include la parola “estetica”, poiché il ramo della filosofia che porta questo nome costituisce una materia di cui non mi sono mai occupato. Tuttavia, non ho trovato un’espressione migliore per descrivere l’esperienza di cui voglio parlare. Non volendo fare speculazioni gratuite, cercherò preliminarmente di chiarire le condizioni per un discorso non metafisico su questi argomenti. L’etica, come tutte le principali aree della speculazione metafisica, ha delle gravi difficoltà ad essere fondata in modo convincente. Il miglior risultato della filosofia contemporanea è stato quello di dissolvere anziché risolvere i tradizionali quesiti filosofici, lasciando però un vuoto che non sempre la scienza riesce a colmare.
Se un’etica filosofica non regge, un'”etica scientifica” suona come un’idea bizzarra. Allo stesso modo, se nessuna definizione assoluta di “bellezza” e quindi di esperienza estetica è risultata ovvia e convincente per tutti, dall’antica Grecia ad oggi, l’idea di una “estetica scientifica” suona come una contraddizione di termini. Mentre le speculazioni metafisiche sulla conoscenza hanno trovato nella filosofia contemporanea della scienza una loro riformulazione convincente, coerente e sistematica (anche se mai “compiuta” come ogni aspetto della scienza), le speculazioni metafisiche sul bene e sul bello, quindi sull’etica e sull’estetica, hanno ottenuto dalla filosofia della scienza solo rilievi critici. Se riuscissimo a ragionare in modo rigoroso su un significato non “vago” ma, ad esempio, psicologico degli stati interni che vengono percepiti come eticamente o esteticamente rilevanti, faremmo un passo avanti nella descrizione di un quid più specifico delle tradizionali “essenze” della metafisica e tratteremmo tale quid in una prospettiva scientifica (anche se forse non ancora articolata), anziché in termini speculativi. È questa la scelta a mio avviso obbligata, dato che non possiamo semplicemente ignorare l’importanza dell’etica e dell’estetica nella nostra vita quotidiana oltre che nella cultura accademica.
È appunto su questa ricerca di uno specifico significato dell’esperienza etica ed estetica che occorre ragionare, ma il ragionamento deve condurre a enunciati intersoggettivamente valutabili.
Etica: dalla metafisica alla psicologia
Il terreno etico-psicologico è già stato dissodato, ma in maniera decisamente insoddisfacente.
La psicoanalisi ha dato contributi che pur avendo affascinato molti studiosi sono privi di qualsiasi rilevanza proprio per il fatto che la stessa teoria psicoanalitica è fondamentalmente una nuova metafisica, arbitraria e sempre verificata (dagli analisti, ovviamente) proprio perché non falsificabile. Altri padri della psicologia e della psicoterapia hanno dato contributi ulteriori, ma a mio avviso anche peggiori. Non starò quindi a discutere riflessioni emerse in ambito psicologico-psicoterapeutico, dato che tale ambito raccoglie tutto e il contrario di tutto, più o meno come la metafisica del passato.
Non potendo quindi fare affidamento sulle basi di una psicoterapia che si autosqualifica (con contrapposizioni interne insanabili), mi baserò su esperienze e riflessioni personali che trovo ragionevoli e ragionevolmente collegate ai fatti da me osservati. Riducendo all’osso ciò che ho ricavato dal mio lavoro, i vari disturbi psicologici (sintomatici o caratteriali) non sono causati da traumi, esperienze, ingiunzioni o divieti, ma sono costruiti dalla persona (nell’infanzia) per evitare esperienze dolorose, cioè esperienze troppo dolorose per essere gestite negli anni in cui la personalità individuale è ancora in formazione. Essi vengono successivamente consolidati e ridefiniti, ma comunque mantenuti anche negli anni successivi, pur non essendo più necessari per via dell’acquisizione di competenze e risorse adulte. Se si riattiva con il lavoro analitico la capacità di attraversare e accettare esperienze dolorose e di integrarle compiendo quell’elaborazione interna che viene definita “lavoro del lutto”, le (pseudo)sofferenze dovute a chiusure mentali ed emozionali diventano superflue. In questa prospettiva i disturbi psicologici non vengono “curati” come se fossero delle malattie, ma analizzati e compresi come difese psicologiche. Per questo parlo di “analisi delle difese” e non di “psicoterapia”, anche se devo comunque definire “psicoterapeutica” la mia attività.
Ho sottolineato in un altro lavoro (cfr. Gianfranco Ravaglia, Perché le persone fanno ciò che fanno, www.risorse-psicoterapia.org) che se la “dissoluzione” della speculazione etica è definitiva, il lavoro analitico (parlo ora di analisi delle difese psicologiche, non dell’analisi filosofica anglosassone) fornisce degli elementi significativi per la comprensione delle radici dell’etica. Infatti, il funzionamento psicologico adulto (libero da difese psicologiche) si traduce spontaneamente in comportamenti rispettosi e costruttivi (cioè in quei comportamenti che i metafisici consideravano “buoni” e determinati dall’esercizio della “volontà”). Il lavoro analitico illustra anche “il come e il perché” dei comportamenti distruttivi (quindi dei comportamenti che i metafisici consideravano “malvagi” e risultanti da una “mancanza di controllo”): essi costituiscono modi per evitare vissuti dolorosi e si formano nell’infanzia perché in quel periodo non è presente la capacità di elaborare e superare esperienze dolorose. La distruttività difensiva, essendo inconscia ed essendo divenuta un automatismo (pur essendosi sviluppata intenzionalmente), permane nella vita adulta e non può essere superata con l’autocontrollo perché essa stessa è una forma di controllo, un modo di mantenere dissociati i vissuti dolorosi (e che erano intollerabili nell’infanzia).
In questa prospettiva si può dire che aveva ragione Rousseau a considerare fondamentalmente “buone” le persone ed aveva anche ragione Hobbes a considerarle “cattive, pericolose e da controllare”. La differenza sta nel fatto che Hobbes vedeva il risultato di uno sviluppo psicologico distorto e non la compiuta espressione delle potenzialità maturate in un ambito famigliare adeguato (cioè caldo, sicuro, accettante).
I moralisti e i bigotti invitano a “reprimere” gli impulsi malvagi (“naturali” e per alcuni dovuti anche al “peccato originale”!) proprio perché non capiscono che la malvagità non dipende da uno scarso “autocontrollo”. All’idea bizzarra che se ci lasciamo andare “cadiamo in tentazione”, si può quindi sostituire l’idea che, finché abbiamo vissuti non risolti che ci spaventano, trattiamo male noi stessi e gli altri per controllare il dolore che temiamo di sentire.
Capisco che sto condensando molte cose in poche righe, ma queste considerazioni sull’etica sono solo l’elemento iniziale del discorso che voglio sviluppare per rendere comprensibili i concetti successivi. Il bene, la sensibilità verso gli altri, la voglia (non il dovere) di aiutarli e vederli felici, rientrano nella nostra “dotazione” umana e accompagnano la nostra vita quotidiana e le nostre scelte, se non veniamo costretti da piccoli a maneggiare troppo presto emozioni dolorose troppo intense. Se ciò avviene, e purtroppo avviene quasi sempre, costruiamo un brutto rapporto con noi stessi e interagiamo con gli altri senza trattarli come persone. Presi da una fame non risolta cerchiamo di manipolare, “conquistare”, “trattenere” gli altri intesi come oggetti, anziché come soggetti, o li maltrattiamo per non sentirci piccoli e fragili. Sulla base di queste certezze abbastanza solide (non dogmatiche e quindi rivedibili, ma al momento confermate e non smentite dai fatti) sulla spontanea propensione al bene (verso se stessi e verso gli altri) in assenza di difese, mi chiedo se qualcosa di simile sia pensabile a proposito dell’esperienza estetica. Credo che il lavoro analitico possa offrire lumi significativi anche per l’estetica.
Estetica: dalla metafisica alla psicologia
Non intendo nemmeno tentare di delineare il nocciolo dell’esperienza estetica, che è uno dei tanti rovelli della storia della filosofia. Voglio però suggerire alcune idee che, come quelle già esposte sulla morale, derivano da esperienze fatte accompagnando tante persone nel loro percorso analitico. La domanda può essere posta in questi termini: la capacità di fruizione estetica è in qualche modo dipendente dal funzionamento psicologico adulto, cioè dall’assenza di difese psicologiche?
Nel procedere del lavoro analitico su sintomi e difese, le persone recuperano e riescono a “maneggiare” emozioni dolorose da sempre temute. Se tutto procede bene, diventano meno rigide mentalmente (e anche livello corporeo, allentando certe tensioni), così come diventano più “fluide” nei comportamenti, più capaci di esperienze “contemplative” (oziare senza ansia, stare con bambini e animali o nella natura senza far “ronzare” il cervello). Diventano più armoniche, sensuali e “vitali”, e quindi anche più sobrie nei gusti: l’abbigliamento formale o trasandato non risulta più necessario, dato che esso serve solo ad occultare la sensualità e ciò vale anche per tutti gli “extra” di cattivo gusto che servono solo per esibirsi superficialmente dopo essersi nascosti in profondità. Con ciò non voglio dire che con la “ripulitura” del carattere svolta grazie all’analisi le persone cambino le loro idee sulle opere di Michelangelo o di Monet, ma semplicemente che le persone meno rigide, distaccate, dissociate hanno anche “più gusto”.
Alcune persone inoltre iniziano o riprendono attività artistiche interrotte in precedenza o cercano di vivere più a contatto con la natura. Come diventano “più belle” e più capaci di non occultare la loro bellezza (per lo meno la loro solarità e sensualità), così diventano più capaci di fare esperienze contemplative e propense a farle. Godono della presenza dei figli anziché limitarsi ad osservarli o controllarli. Riescono quindi a godere della vita.
Può ciò costituire almeno la condizione di un’esperienza estetica? In qualche modo, la capacità di fare esperienze estetiche non superficiali dipende dalla capacità di “sentirsi”, cioè di apprezzarsi e godere della semplice sensazione di “esserci”. È ben nota l’incuria per l’ambiente domestico di persone depresse e anche l’intenzionale capacità di mettere o lasciare in disordine le cose delle persone con tratti masochistici del carattere. Lo stesso vale per l’ordine “glaciale”, solamente “igienico-geometrico” degli ossessivi. Tutte cose “di cattivo gusto”.
È difficile che persone spaventate dalla loro distruttività possano vedere la bellezza degli animali selvaggi, verso i quali provano soprattutto paura o un senso di estraneità. E’ difficile che persone bloccate nella loro sessualità possano divertirsi giocando con i bambini. Ciò non significa che tutti quelli che guardano dei documentari sugli animali o hanno figli o cani abbiano un buon equilibrio psicologico. Sottolineo solo che il blocco della propria vitalità può tradursi in disturbi del piacere di vedere o frequentare i bambini e gli animali.
Il rovello dei filosofi è comunque la definizione del bello e dell’esperienza estetica. Perché, anche se non è facile da spiegare, tutti convengono sul fatto che un “bel tramonto” è “bello”, mentre nessuno considera “bello” un organo interno, la carcassa di un animale in putrefazione o un mucchio di sassi. Si può pensare che, se la benevolenza verso gli altri dipende dalla benevolenza verso noi stessi, forse la capacità di giudizio estetico dipende dalla percezione compiuta di sé, cioè dal sentirsi “intensamente” e dal sentire come “bella” la nostra persona. Trovo ragionevole questa linea di ragionamento anche se devo riconoscere che la tesi non è dimostrata in modo stringente.
Propongo quindi un “esperimento mentale”, cioè una di quelle fantasie con cui i filosofi anglosassoni tendono a dimostrare indirettamente la ragionevolezza di una loro lettura delle cose. Immaginiamo di andare su Marte e di trovare il pianeta abitato da esseri molto diversi da noi. Questi marziani ci ignorano completamente: interagiscono quindi con noi visitatori più o meno come noi interagiamo con le farfalle. Avendo la massima libertà di osservazione, scopriamo che questi marziani interagiscono fra loro, ma fanno ciò in modi irriducibili alle nostre modalità di interazione: non si incontrano né si scontrano, ma si schivano. Invariabilmente modificano la traiettoria del loro procedere di venti o novanta gradi senza mai deviare con un’angolatura diversa da queste due. Hanno le antenne e una lunga coda che all’occorrenza consente a loro di assumere una posizione analoga a quella con cui (usando un oggetto) noi ci sediamo. Muovono anche le antenne in tutte le direzioni e con velocità diverse. In pratica, osservandoli, registriamo alcune regolarità del loro modo di vivere, di muoversi e di interagire, ma non “comprendiamo” nulla.
Possiamo, in questa situazione, dire che è “bello” il modo in cui il marziano X ha ora mosso le antenne, così come diciamo che una poesia di Montale è più bella di un messaggio pubblicitario? Possiamo dire che un marziano che “vira” di venti gradi per schivare un suo simile fa un movimento bello come un “bel passo di danza”, mentre se lo schiva virando di novanta gradi fa un movimento brutto come il sollevamento di un peso fatto da un culturista? Se nei marziani dell’esperimento mentale non troviamo traccia di bellezza è per via dell’estraneità che in tale esperimento abbiamo ipotizzato. A differenza delle “altre persone”, questi marziani costituiscono per noi una totale “alterità”.
Queste considerazioni, unite a quegli accenni appena fatti sul lavoro analitico, consentono a mio avviso di pensare che più siamo chiusi emotivamente e più siamo insensibili, sia sul piano morale, sia sul piano estetico. Più siamo aperti emotivamente e più siamo sia benevolenti verso noi stessi e verso gli altri, sia capaci di esprimere la nostra bellezza e contemplare quella della vita che ci circonda, nella misura in cui essa è affine alla nostra.
Prigionieri di ciò che siamo
Mentre le nostre capacità intellettive e conoscitive sono più o meno sviluppate indipendentemente dalla nostra libertà o compiutezza interiore, al punto che possono anche essere sostituite da funzioni “meccaniche” appropriate (intelligenza artificiale), le nostre capacità “etiche” ed anche estetiche sembrano dipendenti dalla qualità del nostro funzionamento emotivo.
Per un essere umano certe esperienze sono moralmente ed esteticamente significative proprio perché è un essere umano. Più il carattere e le difese psicologiche limitano o distorcono la nostra “umanità”, più la nostra vita diventa arida sotto tutti gli aspetti: meno costruttiva, meno efficace, meno comprensibile ed anche meno buona e meno bella. In quanto esseri umani, pur avendo da sempre un “anelito” al trascendente, a qualcosa “oltre” la nostra dimensione personale, siamo ciò che siamo anche quando immaginiamo altri orizzonti.
Probabilmente se un cavallo immaginasse una vita umana, trascendente la sua “cavallinità”, immaginerebbe una vita in cui c’è erba più buona. Noi umani, anche senza scomodare fenomeni e noumeni kantiani, siamo un punto di vista sull’universo e proprio all’interno delle capacità e dei limiti di tale punto di vista costruiamo il nostro mondo ed immaginiamo altri mondi. Siamo esseri umani e “imprigionati” nella nostra umanità anche quando cerchiamo di trascenderla. Non solo: siamo singole persone imprigionate in una soggettività individuale anche quando cerchiamo (e magari realizziamo con soddisfazione) un incontro, un contatto, un’esperienza di intimità. In fondo siamo “condannati” ad essere noi stessi. Ciò non è né un bene né un male: è la nostra vita.
Estetica del buono
Dopo questa lunga premessa sulla possibilità di ragionare in termini psicologici e non metafisici sull’etica e sull’estetica passo ora al tema specifico di questo lavoro: è possibile, in qualche modo non nebuloso, parlare sensatamente del piacere di osservare azioni moralmente apprezzabili? È cioè possibile parlare di una “estetica del buono”?
Vale per tutti, come esempio di ciò che chiamo “estetica del buono”, il film più bello di Frank Capra (La vita è meravigliosa), che per me è anche uno dei film più belli della storia del cinema. Il personaggio principale (una persona che aveva dedicato la sua vita ad aiutare il prossimo), dopo essere stato rovinato da un ricco imbroglione ed essere stato aiutato da un angelo (un simpaticissimo “angelo di seconda classe”) a superare una reazione gravemente depressiva, torna ad affrontare la situazione difficile che gli era parsa insostenibile e riesce a superarla con l’aiuto offertogli dalla moglie, da tutti i suoi amici e da tanti concittadini. Film commovente ed elettrizzante (anche se in un modo diverso da come può esserlo un film d’azione “adrenalinico”).
Credo che questo film, che continua ad essere proiettato in tv e venduto in dvd dopo mezzo secolo, mostri qualcosa di “bello”. Non solo e non tanto la bellezza (indiscutibile) dell’opera cinematografica, ma proprio la bellezza della storia rappresentata: quella piccola guerra fra il bene e il male che si conclude con un prevalere della benevolenza (di tutti) sui sentimenti di paura, rabbia, indifferenza. Credo che anche le persone meno inclini all’impegno politico non possano sottrarsi ad un’emozione di profonda, anche se dolorosa, partecipazione alla scena in cui, nel film di Roberto Rossellini Roma città aperta, il capo partigiano rifiuta di fare il nome dei suoi compagni, fino al punto di morire per le torture subite nel corso di un interrogatorio dei nazifascisti. Egli non parla perché, essendo prigioniero, l’unica cosa buona che può fare è non parlare. C’è una “bellezza” in quell’ostinazione al silenzio che esprime tutta la passione del personaggio. Non è questione di “eroismo”, ma di benevolenza, di armonia, di partecipazione al bene di tutti.
Parlo di “estetica del buono” per situazioni di questo tipo (vissute nella vita quotidiana o attraverso l’immedesimazione nei personaggi di un film, o di un romanzo), perché credo che tale esperienza possa essere considerata analoga (non simile, né identica) a quella estetica in senso stretto. La contemplazione di un tramonto o di un’opera d’arte produce (se la persona non è impedita da chiusure emotive o preoccupazioni) una sensazione soggettiva di appagamento, di armonia, di compiutezza che non è possibile provare assistendo ad un incidente stradale o ad una tela imbrattata a caso. Tale appagamento è gratificante anche se non ci consente di “ricevere” qualcosa (un regalo, una carezza, un aiuto): è gratificante semplicemente perché qualcosa si manifesta.
Ciò vale per l’esperienza estetica come per l’esperienza che sto cercando di circoscrivere. Nell’esperienza estetica in senso stretto è la particolare forma o armonia che ci risulta gradita, mentre nell’esperienza che chiamo “estetica del buono” è la dinamica della situazione osservata che ci entusiasma. Quando vediamo compiere delle buone azioni con semplicità ed efficacia, abbiamo una sensazione del tipo “tutto ora è a posto”, come quando leggendo una poesia pensiamo che non andrebbe spostata nemmeno una virgola o come quando, vedendo un quadro, pensiamo che esso è “compiuto” così come è. Tale esperienza di compiutezza e di armonia “lì davanti a noi” non caratterizza altri tipi di appagamento. C’è una bellezza particolare nei gesti individuali, nelle forme di collaborazione, nei risultati delle azioni costruttive che non tutti colgono, ma che costituisce un’esperienza entusiasmante e pacificante.
Non credo che chi non coglie tale bellezza sia privo di qualche particolare capacità. Non credo nemmeno che sia “fatto in un altro modo egualmente valido”. Non voglio far mia né la prima posizione (naturalistico-metafisica) che squalifica come essenzialmente deficitaria la persona che sente le cose in un modo diverso, né la seconda (convenzionalista) che squalifica invece l’esperienza “estetica” in questione riducendola a un capriccio soggettivo. Credo infatti che per certe caratteristiche umane siamo tutti uguali e capaci di manifestare le stesse potenzialità, anche se in modi differenti.
La mia esperienza di uomo e di analista mi porta a ritenere che chi non apprezza, non trova bello e appagante il bene, l’agire bene in tutte le sue forme, sia sensibile come gli altri, ma si dia dei limiti per paura di “sentire troppo” (e quindi anche di sentire “troppo” dolore). I limiti nel desiderio e nel piacere di fare il bene diventano anche limiti nella capacità di contemplare le buone azioni di altre persone. Il piacere di contemplare altre persone benevolenti e impegnate nel fare azioni buone costituisce l’ulteriore passo di una “danza” che iniziamo guardandoci dentro e sentendo la delicatezza della nostra vita.
L’immagine: L’uccello di fuoco, figurino (1910) per l’opera di Igor’ Stravinskij, di Léon Bakst (San Pietroburgo, 10 maggio 1866 – Parigi, 28 dicembre 1924).
Gianfranco Ravaglia*
* L’autore
Gianfranco Ravaglia, laureato in Filosofia nel 1974, psicoterapeuta iscritto all’Ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna, è autore di articoli e libri telematici pubblicati sul suo sito personale e su Psychomedia e di libri pubblicati con la casa editrice Psiconline. Collabora al blog collettivo: http://tempovissuto.blogspot.com.
(LucidaMente, anno V, n. 53, maggio 2010)