Negli ultimi anni, il dibattito sull’eutanasia si è fortemente riacceso. La pratica consiste nel “provocare la morte” di una persona su sua espressa richiesta, per porre fine alle disperate e irreversibili condizioni di salute.
Storia e significato del termine eutanasia – Il termine eutanasia deriva dal greco e significa “morte dolce”. Infatti, ha il fine di alleviare le sofferenze del malato che, affetto da una grave patologia, potrebbe essere costretto ad alimentarsi e a respirare attraverso dei macchinari. Anticamente il termine eutanasia non possedeva l’accezione moderna. Gli antichi, infatti, con questa parola si riferivano alla morte “ideale” da provocarsi come degna conclusione della vita; a tal proposito ricordiamo il celeberrimo suicidio di Socrate o di alcuni personaggi del panorama letterario latino. Fu il filosofo Francis Bacon, nel saggio intitolato Progresso della conoscenza, ad introdurre il termine nella cultura occidentale, intendendo, però, il dovere morale e professionale del medico ad assistere il malato, facendolo soffrire il meno possibile. In passato, dunque, a causa della diversa realtà antropologica e dello stato della scienza e della medicina, che non consentivano certamente lunghe agonie, non esisteva ancora l’idea di procurare la morte, ma solo di alleviare le sofferenze. Il Giuramento d’Ippocrate (risalente al 420 a.C. circa) precisa che “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo”.
I diversi punti di vista – Oggi il dibattito sulla questione è particolarmente vivo. Da un lato una certa morale indotta da molte dottrine religiose interpreta l’eutanasia come un omicidio. Dall’altro, la solidarietà e la sensibilità umana nei confronti delle atroci sofferenze cui sono condannate le persone affette da gravissime patologie (come la sclerosi laterale amiotrofica – da cui era stato colpito Luca Coscioni -, solo per citarne una) spingono i loro parenti, in nome dell’affetto, a cercare strade per porre fine all’atroce dolore dei propri cari. Il caso più eclatante degli ultimi anni in Italia è stato sicuramente quello di Piergiorgio Welby, sofferente per i progressivi esiti devastanti della distrofia muscolare, morto il 20 dicembre del 2006 a causa della rimozione del respiratore che lo manteneva in vita. Ma si possono ricordare anche quelli, in Italia e nel mondo, di Vincenza Santoro, Chantal Sèbire, Hugo Claus, June Burns, Giovanni Nuvoli, Diane Pretty, Vincent Humbert, Ramón Sampedro, e mille altri. Il più lungo e straziante, anche per il continuo rimpallo di competenze, e tuttora aperto, è quello di Eluana Englaro. Una argomentazione a favore della pratica dell’eutanasia è legata al tipo di trattamento sanitario al quale è sottoposto il malato, vero e proprio accanimento “innaturale” e senza alcun valore terapeutico o speranza di guarigione o almeno di miglioramento.
Il testamento biologico – In seguito alle polemiche sollevate, si è iniziato a parlare di testamento biologico (definito anche testamento di vita o dichiarazione anticipata di trattamento). Si tratta di un documento redatto dalla persona in un periodo precedente a un’eventuale grave malattia, in piena condizione, cioè, di intendere e di volere. All’interno del testamento il soggetto può decidere di rinunciare a qualsiasi tipo di trattamento o accanimento terapeutico. A causa pure dei casi cui abbiamo accennato, è aumentato il numero dei testamenti biologici redatti, anche se ancora in Italia manca una precisa normativa che regoli la questione.
l’immagine: foto di Eluana Englaro.
Marco Papasidero
(LucidaMente, anno III, n. 34, ottobre 2008)