Marco Bellocchio nel film e Massimo Gramellini nel libro mettono da parte ambizioni intellettualistiche per avvicinarsi, con umiltà e sensibilità, a un dolore precoce che può minare già dai primi anni di vita una crescita serena e, dopo, anche la stabilità emotiva dell’adulto
Il film Fai bei sogni (con Valerio Mastandrea, Berenice Bejo, Guido Caprino) è un intreccio tra l’ispirazione del regista Marco Bellocchio e il racconto che il noto giornalista Massimo Gramellini fa della propria vicenda umana nell’omonimo romanzo autobiografico tradotto in 22 lingue e diventato un best seller (vedi anche una precedente recensione del libro, scritta da Katia Grancara per LucidaMente). Dall’uscita, avvenuta nel 2012, esso ha infatti avuto più ristampe, fino a raggiungere 1.350.000 copie, un successo al quale pare avviarsi anche l’opera cinematografica, presentata a Cannes 2016 e già distribuita in molti Paesi.
«Sudavo tantissimo. Di giorno e di notte, d’estate e d’inverno. Sudare era il mio modo di piangere», scrive Gramellini nel proprio toccante romanzo, al quale il cineasta di Bobbio si è ispirato per un film altrettanto importante. E, ancora: «Perché tutti quanti, mamma o sconosciuti che fossero, nel momento del bisogno, mi lasciavano solo?». Così si sentiva Massimo a nove anni, quando la madre era già ammalata. Una sensazione avvertita anche dopo la misteriosa morte della persona che il bambino aveva più vicina, presente e attenta nell’accogliere i pensieri del figlioletto, oltre a sollecitarne l’ammirazione, quasi una venerazione che lui le tributava come a una dea. Massimo non chiede altro che averla accanto, sempre, pronto a condividerne le tristezze, le cadute di tono e perfino a patire l’assentarsi del suo sguardo quando vaga verso orizzonti in cui non c’è posto per lui.
E, subito dopo, è disposto ad adeguarsi al ritrovato buonumore della madre, culminante nell’allegria incontenibile, fin quasi alle lacrime, mentre lo trascina in un ballo sfrenato, nel gioco a nascondino, in una marachella o come quando lo esorta a lasciare di nascosto lo studio del dentista che vorrebbe estrargli un dente! La storia è ambientata in un’abitazione “inventata” da Bellocchio per una famigliola che, come tante altre negli anni Sessanta-Settanta dello scorso secolo, predilige un’atmosfera accogliente, con arredi razionali ma confortevoli e l’immancabile Tv, simbolo di quei tempi, come lo è oggi Internet per noi. In quella casa, con il trauma per l’improvvisa e inspiegabile assenza dell’immagine che per Massimo è fonte di vita, fa capolino Belfagor, nella veste di provvidenziale risorsa e suo alter ego.
Il bambino senza la mamma entra, infatti, in un tunnel di angoscia e necessita di una guida, foss’anche il demonio che gli dà direttive, non propriamente etiche. Per non essere sopraffatto dal dolore egli cede all’ossessione di identificarsi con qualcuno che ammira sul piccolo schermo e allora è, di volta in volta, radiocronista sportivo, campione di tuffi… imitando quei modelli nella solitudine della sua cameretta, mentre fuori dalla porta una tata anaffettiva e un papà introverso e rigido origliano e si preoccupano per lui, senza saperlo aiutare. Nei trent’anni che il film percorre della vita di Massimo ci sono un tempo psicologico, che è fermo, e un tempo storico con Tangentopoli, Sarajevo e tanti momenti di televisione a sottolineare lo scorrere delle stagioni in compagnia di Raffaella Carrà, Gianni Morandi, de I ragazzi della via Pál, di Caterina Caselli e Belfagor, lo sceneggiato che lui vede abbracciato alla mamma. Il bambino attraversa le varie fasi della crescita in modo problematico e arriva infine a essere un adulto che trova la sua strada nel giornalismo. Inizia un periodo che segna una svolta nella vita di Gramellini per la necessità e il desiderio di integrarsi nella realtà.
Durante la guerra in Bosnia, come inviato a Sarajevo, quando entra in una casa bombardata e vede un ragazzino assorto nel proprio videogioco, con accanto la madre esanime, in una pozza di sangue, Massimo non riconosce in tale scena il proprio dramma di orfano e, con una foto, immortala l’immagine per il giornale, in modo automatico. Il suo vissuto di bambino deprivato della mamma permane oscuro nel tempo ed è sentito come un’ingiustizia o un tradimento. Quella scomparsa improvvisa, nella notte di fine anno 1969, maldestramente spiegata forse con l’intento di proteggerlo dal dolore, determina un blocco emotivo mai del tutto superato, che lo porterà a cercare nelle donne incontrate un sostituto materno.
È doloroso il rifiuto di un bacio sulla guancia, con cui cerca di conquistare la gelida tata: «Non posso farti da mamma, non ne sono capace», gli dice. In seguito, come ogni fatto rimosso dalla coscienza, la verità ignorata, o meglio seppellita insieme alla bara che lui voleva far aprire per verificare se dentro ci fosse davvero il corpo della madre, provoca altre incursioni di Belfagor, la cui corazza lo protegge e lo fa sentire al sicuro. L’incontro con Elisa, una donna che lo lascia libero pur spronandolo a vivere con slancio, segna l’inizio di un periodo in cui Massimo si consente perfino di abbandonarsi, in pubblico, a un ballo scoordinato e liberatorio che ricorda l’esibizione scatenata, in apertura del film, in cui la mamma lo trascina tra le quattro mura di casa. Elisa sembra comprendere che il percorso di un adulto con una ferita come quella di Massimo è altalenante; ci sono momenti di angoscia che prevalgono e bloccano l’agire, il pensare, e allora l’energia recuperata crolla e fa posto a misure difensive, indispensabili a evitare la frantumazione del suo fragile Io.
Si può solo aspettare, come fa Elisa, e tenere in vita quel barlume di luce, affinché possa illuminare i luoghi chiusi della mente con i segreti ai quali Massimo pare voler accedere, finalmente, per ritrovare almeno una parte di verità sul legame tra lui e la madre. La scatola di cartone, dove si rinchiudono dopo un gioco che causa al bambino quasi un attacco di panico, come gli succederà in altre fasi della vita, è un ricordo significativo che affiora alla mente di Massimo adulto e, in un finale squisitamente bellocchiano, avverte quanto sia lungo e infido il percorso verso la “guarigione”.
La cifra autoriale di Bellocchio è presente anche in tutta la prima parte del film, sull’infanzia dello scrittore, mentre nella seconda prevale una sceneggiatura più scontata e leggera, che pare rispecchiare il desiderio di normalità che Gramellini manifesta quando scrive: «Dopo troppe immersioni negli abissi, avevo finalmente voglia di scivolare sulla superficie della vita, alimentandomi dell’illusione di essere simile agli altri». Lo sguardo di un regista sensibile qual è Bellocchio si fa quasi paterno, a questo punto, e abbandona le incalzanti analisi psicanalitiche per adottare un registro rispettoso della leggerezza che lo scrittore si vuole concedere: lo spazio e il tempo umani che permettano l’elaborazione del lutto ancora presente. Fai bei sogni non è un’opera minore di Bellocchio, pur distinguendosi dalla precedente importante filmografia. Anzi, ha in più il merito di essere accessibile, così come il romanzo, a una larga platea di persone che finora si sono tenute a distanza, soprattutto dall’autore di Bobbio, forse per soggezione verso contenuti ritenuti troppo difficili o per ragioni di fruizione non immediata da parte di quel pubblico che del cinema privilegia l’aspetto dell’evasione.
Le immagini: la locandina del film, la copertina del libro e una foto tratta da esso.
Silvana Tabarroni
(LM MAGAZINE n. 29, 16 dicembre 2016, Speciale Eventi culturali, supplemento a LucidaMente, anno XI, n. 132, dicembre 2016)