Tutto quello che c’è dietro le ingenti donazioni dei ricchi magnati americani. Ci guadagnano tutti, compreso lo stato. E si moltiplicano potere e influenza
Andrew Carnegie, imprenditore inglese vissuto a cavallo tra Otto e Novecento, ricordato come uno dei primi e più grandi filantropi della storia, affermava: «Nessun uomo può diventare ricco senza arricchire gli altri. Colui che muore ricco, muore in disgrazia». D’altra parte, Lev Tolstoj, celebre scrittore russo noto soprattutto per il monumentale romanzo Guerra e pace, contrattaccava nel saggio La distruzione dell’inferno e la sua restaurazione: «Il diavolo della filantropia inculca agli uomini che se rapinano e danno briciole ai rapinati fanno opera benefica e non devono più voler essere migliori».
Chissà se il terzo uomo più ricco della Cina, Jack Ma, all’anagrafe Ma Yun, si è ispirato a una delle due massime, quando a settembre ha annunciato di dimettersi da presidente esecutivo di Alibaba – colosso dell’e-commerce da lui fondato nel 1999 –, per dedicarsi alla filantropia. «Non voglio morire nel mio ufficio, voglio morire al mare», titolano i giornali di tutto il mondo nel dare la notizia. Certo, chi “non ci metterebbe la firma”? Soprattutto con un conto in banca che vale circa quaranta miliardi di dollari… Al di là delle frasi a effetto, sembra che il ricco imprenditore voglia seguire le orme di Bill Gates, nominato per anni dalla rivista Forbes l’uomo più ricco del mondo. Ancora alle porte del nuovo millennio, il papà di casa Microsoft annuncia di voler abbandonare la poltrona dirigenziale per dedicarsi a quella che è oggi la più importante associazione benefica privata del mondo, la Bill e Melissa Gates (la fondazione contribuisce da sola all’11% del bilancio dell’Organizzazione mondiale della Sanità). Racconta Melissa che spesso, prima di dormire, lei e il marito discutono delle decisioni da prendere nell’istituzione, come in una sorta di Casa Vianello da ricchi dove, invece di annoiarsi, si stabilisce cosa e chi finanziare.
La critica mossa a Gates, e ai magnati della filantropia a stelle e strisce in genere, è infatti quella di assumere un ruolo che spetterebbe di diritto allo Stato: operare scelte in ambito sociale e politico. Ma il punto è che in America fare beneficenza conviene, soprattutto ad alti livelli: in sede di dichiarazione dei redditi, le donazioni sono in buona parte detraibili, a volte anche del 100%. Altro elemento fondamentale è la totale discrezionalità delle decisioni prese all’interno dell’associazione: con queste condizioni il rischio di “giocare a fare Dio” diventa alto. Che una coppia abbia in mano le sorti di una buona fetta di popolazione non è aspetto da prendere sotto gamba.
In un discorso del 2012, Bill Gates parlò di una “filantropia catalitica”: un concetto di dare non slegato dall’esperienza imprenditoriale e capitalista, una sorta di investimento a lungo termine. Semplificando: è verificato che i programmi di aiuto allo studio diminuiscano la criminalità giovanile, garantiscano alti livelli di istruzione e migliori posti di lavoro. Tradotto: persone colte, più produttive, con un reddito maggiore diventano non solo dei perfetti consumatori, ma anche degli ottimi contribuenti; più soldi significa infatti più tasse. Quindi, a ben vedere, il ritorno della beneficenza non è solo di chi la fa. Una nazione con un welfare state poco sviluppato – com’è tradizionalmente l’America, patria del liberismo – crea il presupposto della presenza della filantropia e ne gode i benefici indiretti con una minore spesa nei servizi. Se da una parte sono innegabili i vantaggi pratici del donare, dall’altra bisogna pur spezzare una lancia a favore della cultura statunitense, dove è radicata l’idea che sia giusto e doveroso ridare alla società quello che si è ricevuto: un’occasione, che forse altrove non ci sarebbe stata. Non per niente il Nuovo continente è spesso definito land of opportunities. La rivista Forbes stila ogni anno la lista dei primi 50 benefattori americani. Dal 2013 a oggi la prima posizione è occupata da Warren Buffett, imprenditore famoso per la sua incredibile capacità predittiva negli investimenti – e soprannominato per questo motivo “l’Oracolo di Omaha”, la città del Nebraska di cui è originario.
Al secondo posto troviamo il citato fondatore della Microsoft con la suddetta Bill e Melissa Gates, che vale più di quaranta miliardi di dollari. Terzo classificato è Michael Bloomberg, ex sindaco di New York. Il grande assente di questa “classifica del bene” è Jeff Bezos, ceo di Amazon e, sempre secondo Forbes, l’uomo più ricco del mondo. Forse il re dell’e-commerce mondiale non voleva sentirsi escluso dal club e così ha annunciato la creazione di un fondo di beneficenza – Bezos Day One Fund – gestito con la moglie MacKenzie S. Bezos. L’investimento iniziale sarà di circa 2 miliardi dollari – a fronte di un patrimonio personale stimato in 160 miliardi –, impiegati in particolare per finanziare le scuole materne delle comunità disagiate.
Non è un caso che questi Paperoni si dedichino spesso alla “beneficenza di coppia”: negli Stati Uniti è infatti legale e assolutamente normale che i membri della famiglia abbiano un ruolo amministrativo nelle associazioni caritative, con tanto di stipendi a sei cifre. Anche Mark Zuckerberg, inventore del social network più famoso al mondo, ha creato con la moglie la Chan Zuckerberg Initiative. Si tratta in questo caso di una Llc (Limited liability company): in pratica una società privata che può generare profitti. L’idea è quella di donare il 99% delle azioni di Facebook, un valore stimato attorno ai 70 miliardi di dollari. In questo modo il proprietario non pagherà le tasse sull’aumento di valore delle azioni; non si parla di un risparmio economico, ma di una mancata entrata nelle casse dello Stato.
Sarà poi lui stesso a decidere, tramite la fondazione, cosa fare dell’ingente somma di denaro. Così il privato si sostituisce al pubblico, decidendo dove e come finanziare (leggi investire). Senza cadere in derive complottiste, sarebbe comunque ingenuo pensare che questi signori della Silicon Valley non traggano alcun tornaconto personale dalla beneficenza, soprattutto di tale portata. Al di là degli sgravi fiscali, la facoltà di decidere in che modo investire delle quantità di denaro superiori al pil di interi Stati non è da sottovalutare.
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XIII, n. 154, ottobre 2018)