Acquisto di follower e like, false sponsorizzazioni, viaggi pagati di tasca propria… Che cosa non si fa pur di diventare una web celebrity
La vita dell’influencer è (quasi) il sogno di tutti: viaggi in posti stupendi, hotel esclusivi, vestiti griffati… senza spendere nulla. Anzi, non solo non si svuotano le tasche, ma si riempiono pure! Anche se probabilmente non è tutto oro ciò che luccica, sono in molti a essere attratti da questa esistenza patinata, tanto che alcuni si improvvisano influencer pur non essendolo realmente. In effetti, che ci si creda o meno, si tratta di un vero e proprio lavoro e, come tale, non lo si può inventare sperando che gli altri – le aziende, nello specifico – credano a un bluff.
Iniziamo con il definire che cos’è, in termini tecnici, un influencer. Prima, però, è opportuno fare una precisazione: il discorso che segue, pur riguardando in qualche modo tutti i social network, si riferisce in particolare a Instagram, senza dubbio il più in voga al momento, soprattutto tra i giovani. L’influencer è, alla lettera, qualcuno che con le sue azioni condiziona qualcun altro. Secondo la definizione della Treccani, si tratta di un «personaggio popolare in Rete, che ha la capacità di influenzare i comportamenti e le scelte di un determinato gruppo di utenti e, in particolare, di potenziali consumatori». L’aspetto più interessante riguarda proprio la seconda parte della spiegazione, riferita all’ambito economico. L’influencer, infatti, è una persona che, tramite la sua attività sui social, riesce a coinvolgere e indirizzare opinioni e decisioni – anche d’acquisto – degli altri utenti, che diventano suoi follower nel senso stretto del termine. L’esempio più noto è senza dubbio quello di Chiara Ferragni, l’influencer italiana da oltre quindici milioni di seguaci su Instagram che fatturerebbe circa dodicimila dollari a post; leggi Chiara Ferragni nel regno dell’apparire (e dell’ipocrisia). Come già sottolineato, si tratta di un lavoro vero e anche ben pagato, soprattutto se si ha la capacità di intercettare i canali giusti.
Esiste infatti un ramo del web marketing, chiamato influencer marketing, che investe proprio in tale direzione. Gli esperti del settore cercano persone in grado di condizionare una fetta di mercato, ovviamente quella che interessa il brand, che vengono pagate purché pubblicizzino i loro prodotti con foto e post ad hoc: un vestito, un’auto, un profumo… ma anche un hotel, un ristorante e perfino una bottiglietta d’acqua. Arrivare al livello della Ferragni non è impresa semplice; la dice lunga il fatto che la sua scalata alle vette dei social sia diventata un case study ad Harvard. Innanzitutto un influencer dovrebbe cercare e trovare una nicchia di mercato entro cui agire: un settore nel quale sia particolarmente informato e specializzato, tanto da esserne un guru. Poi, deve avere ben chiari l’obiettivo e il target cui rivolgersi. Ancora – fondamentale – deve creare dei contenuti rilevanti, originali e accattivanti per i follower.
Qui entrano in campo un’abilità comunicativa efficace, la capacità di mantenere vivo l’interesse nel tempo e, soprattutto, la bravura nel creare un rapporto di credibilità e fiducia con i propri seguaci. La sensazione che, in fondo, l’influencer sia “uno di noi” contribuisce a renderlo affidabile ai nostri occhi. Almeno in apparenza, infatti, non si tratta di un’élite di privilegiati, ma solo di utenti che conducono un’esistenza simile a quella degli altri. Quindi, nel momento in cui sponsorizzano un determinato prodotto – che sia reale o un concept –, viene più naturale entrare in empatia con loro; è ormai risaputo quanto sia importante per un venditore riuscire a toccare le corde più emotive di chi ha davanti. Dal momento che diventare influencer sembra alla portata di tutti – ci si dimentica, per esempio, del lavoro di editing e post produzione di foto e video – e sono numerosi i benefit che se ne possono trarre, sempre più persone tentano di improvvisarsi in questo campo. Nasce così il fenomeno dei finti influencer: utenti che, tramite l’acquisto di follower e like, cercano di “gonfiare” il loro profilo in modo da renderlo più appetibile per le aziende.
Capita, quindi, che un brand che voglia investire nella pubblicità sui social possa prendere, senza le dovute verifiche preliminari, un grosso abbaglio, con le conseguenti ricadute finanziarie. Vista la necessità di evitare perdite di denaro e di credibilità – è molto importante scegliere da chi farci rappresentare –, esistono professionisti e programmi che analizzano i profili per smascherare quelli falsi. Per capire se si tratta di un account fake, è particolarmente utile l’analisi del cosiddetto engagement, ossia il rapporto tra il numero di follower e la quantità di like. Per esempio, se un profilo è seguito da dodicimila persone – e rientra quindi nella categoria dei microinfluencer, secondo la stima di communicationvillage.com –, ma i post hanno una media di cento/duecento like, è molto probabile che l’utente abbia comprato dei follower o stia usando dei bot.
Un’ulteriore verifica potrebbe riguardare l’analisi dell’account di chi segue la pagina del presunto influencer: se è senza foto profilo e non presenta attività, è possibile che sia un fake. Anche i commenti sono un’ottima cartina di tornasole: se sono frasi generiche o semplici emoticons, quasi sicuramente ci troviamo di fronte a un bot. Altro elemento rilevante è lo scambio di botta e risposta: l’influencer, infatti, è molto attento a replicare ai commenti dei propri seguaci, in modo da coltivare la sopracitata sensazione del “è uno di noi”. Infine, secondo un’inchiesta dell’Atlantic riportata dal Post, di recente è emerso un nuovo tipo di finti influencer: i falsi “brandizzati”, coloro cioè che “taggano” nei propri post i nomi delle aziende senza ricevere alcun compenso. Il loro scopo è duplice: attirare l’attenzione del marchio e acquisire fama tra i seguaci. A detta del noto giornale americano, un ragazzino statunitense si sarebbe addirittura pagato un viaggio a Miami fingendo che si trattasse di una vacanza sponsorizzata. Le aziende, da un lato, potrebbero anche trarne vantaggio – pubblicità gratis – ma, dall’altro, spesso non hanno alcuna voglia di essere rappresentate da qualcuno che in realtà non scelgono e che, paradossalmente, le usa come vetrina di lancio.
Chiara Ferrari
(LucidaMente, anno XIV, n. 158, febbraio 2019)