La Danimarca è un’altra realtà, anche geografica. Nel nostro Paese frequenti la precarizzazione e i licenziamenti. Attacco all’articolo 18 perché ultimo baluardo?
Dopo la pesante manovra su tasse e pensioni dei lavoratori dipendenti il governo “tecnico” ha rilanciato l’ipotesi di una riforma della disciplina del contratto di lavoro e dei licenziamenti individuali.
L’ipotesi governativa sembra essere quella di uno “scambio” tra il superamento delle numerose tipologie contrattuali flessibili, introdotte tra il 1997 con il “pacchetto-Treu” e il 2003 con la “legge-Biagi”, accompagnato da strumenti di sostegno al reddito in caso di disoccupazione (come auspicato dal presidente della Repubblica Napolitano), e l’abbassamento della tutela per i licenziamenti illegittimi, prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ed è proprio quest’ultimo aspetto a destare le maggiori perplessità, soprattutto perché si afferma che “maggiore libertà di licenziare genera nuova occupazione”. Non si capisce, infatti, come più licenziamenti possano creare nuovo impiego, in un Paese, tra l’altro, che ha ben 3,5 milioni di senza-lavoro, con un tasso di disoccupazione giovanile del 60% in larga parte concentrato al Sud.
Né convince l’assunto, che guarda all’esperienza-pilota scandinava sulla flexisecurity, secondo cui, attraverso il mix tra “licenziamenti facili” e sostegno a reddito per i disoccupati, si trovi facilmente lavoro. È vero che in Danimarca sono circa 6 milioni all’anno i lavoratori che passano con questo sistema da un’azienda ad un’altra, ma in un territorio nazionale estremamente ridotto, a fronte di una notevole estensione della nostra Italia. I lavoratori italiani sarebbero costretti a migrazioni sistematiche all’insegna di una nuova precarizzazione, quella territoriale.
E, poi, è necessario ricordare al governo e al ministro del Lavoro Fornero e all’asse franco-tedesco, che ha dettato all’Italia, tramite la Banca centrale europea guidata da Mario Draghi, la famosa lettera “lacrime e sangue”, una serie di dati. Eccoli, di seguito. Le statistiche Ocse ci attribuiscono uno dei più alti indici di flessibilità per i licenziamenti tra gli Stati più industrializzati nel mondo, con l’1,77% (più flessibili di Polonia, Ungheria e Repubblica ceca, mentre la Germania è la più “rigida” con ben il 3,0%!). Le imprese in caso di crisi e per problemi legati all’organizzazione del lavoro possono ricorrere ai licenziamenti collettivi con vincoli esclusivamente procedurali. È possibile il licenziamento individuale per “giustificato motivo oggettivo”, per motivi economici, cioè con l’onere della prova a carico delle imprese. L’articolo 18 si applica solo nelle imprese con più di 15 dipendenti. Le cause concernenti l’art. 18 non sono più del 10% dell’intero contenzioso instaurato innanzi ai Tribunali del Lavoro.
Ma, forse, tutto questo accanimento contro l’art. 18 serve a eliminare l’ultima delle tutele sociali forti nel nostro Paese, essendo già incrinati strumenti a sostegno dei lavoratori previsti dalla Costituzione repubblicana: dal sistema previdenziale universalistico al contratto collettivo nazionale di lavoro.
Le immagini: il belga Constantin Meunier (Bruxelles, 1831-1905) è stato uno degli artisti più sensibili alle sofferenze dei lavoratori; in apertura due sculture per il Monumento al lavoro di Bruxelles (La miniera e L’industria, 1890-1902); in fondo Nel paese nero (1893 circa, olio su tela, 81 x 94,5, Parigi, Museo d’Orsay).
Maurizio Ballistreri (da Avanti! della domenica, n. 5, 12 febbraio 2012)
(LM MAGAZINE n. 22, 14 febbraio 2012, supplemento a LucidaMente, anno VII, n. 74, febbraio 2012)
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