Il passatempo online tra i più amati dagli “adolescenti di tutte le età” – come ogni moda virale tra i teenager – apre il dibattito su quanto potrà nuocere al futuro dei nostri figli
Nella provincia di Bologna, uno studente di seconda media ha appena preso un buon voto all’interrogazione. Ed è contento. Nella provincia di Bari, un bambino si è appena spruzzato la panna montata spray in bocca. Ed è contento. In un playground di Madrid, un quattordicenne è soddisfatto per aver messo la tripla decisiva. Tutti e tre fanno ciondolare le braccia: destro avanti sinistro dietro, sinistro avanti destro dietro. Movimento ancheggiante e ritmato. È la Floss dance di Fortnite. Si sblocca alla seconda stagione e accompagna le esplosioni di gioia di milioni di persone.
Fortnite è il gioco online del momento e, diventando virale, ha recato con sé tutto un apparato di tendenze contingenti: danze propiziatorie, espressioni gergali, tazze e felpe con il cappuccio. Ideato dalle case di sviluppo di videogiochi Epic Games e People Can Fly nel 2017, offre ai suoi utenti due modalità di intrattenimento: Salva il Mondo, in cui si coopera per arginare gli effetti di una tempesta che ha sterminato il 98% della popolazione mondiale, e Battaglia reale, un tutti contro tutti tra cento partecipanti. Si parte a bordo del Vinderbus (un autobus legato a un pallone aerostatico), poi – una volta paracadutati su un’isola – si va a caccia del miglior equipaggiamento per contrastare i 99 avversari e sfuggire a un’altra tempesta che si estende inesorabile sull’area di gioco. Vince chi resta vivo. Si gioca per la sopravvivenza. Ma, per non morire, bisogna uccidere. È più o meno a questo punto che una mamma qualsiasi comincia a chiedersi se stia allevando un degno erede di Donato Bilancia [assassino seriale italiano, ndr].
Dubbio più che legittimo. È chiaro che, per evitare ogni forma di stimolo violento, bisognerebbe sradicare totalmente il proprio figlio dal mondo delle immagini. Insomma, dal mondo in generale. Accantonata – per ora – la degenerazione ferina delle relazioni tra il giovane giocatore e gli altri, si affacciano nella questione altri due spettri, altrettanto formidabili: il deterioramento del rapporto con se stessi e l’involuzione delle abitudini comportamentali. Sviluppare una dipendenza, quindi, e cadere negli ingranaggi marcescenti dell’omologazione.
Il problema della dipendenza è reale, ma non colpisce tutti indistintamente, come emerso in una recente inchiesta di Repubblica. Nelle ultime versioni del Dsm (Diagnostic and statistical manual of mental disorder) è apparsa la dicitura gaming disorder tra le malattie da approfondire. I casi più eclatanti, ovvero quelli degni di meritare almeno «tre colonne in cronaca», vengono quasi tutti – come molto spesso accade – da oltreoceano o dal Regno Unito. E si sa, a stare peggio sono sempre i figli degli altri. Certo, dedicare quotidianamente più di un’ora allo stesso passatempo per mesi non è per niente un segnale rassicurante. Le soundtrack, gli effetti sonori, i colori e l’ansia di essere shottati all’improvviso sono gli stimoli intellettivi e sensoriali che – prima o poi – finiscono per diventare familiari. Le atmosfere del gioco cominciano a farti sentire a casa e, ogni volta che una partita sta per ricominciare, è come se l’anima tirasse un sospiro di sollievo. Poi la realtà squarcia l’incantesimo e, in tutte le situazioni extra Fortnite, si cercano surrogati per sopperire a quell’angosciante senso di vuoto e mancanza.
Inoltre, bisognerà pur avere qualcosa da dire sul tema più in voga, e in questo ci si mette anche l’abominevole mondo delle immagini a lanciare ripetuti cenni d’intesa. Tanto per dirne una: durante la finale dei mondiali, Griezmann ha esultato con la emote Take the L di Fortnite. Tanto per dirne un’altra: Marc Márquez ha celebrato la vittoria a Jerez in piedi sulla Honda, con la sopracitata Floss dance. E chiedersi se un tormentone sia la risposta a una tendenza esistente o la sua stessa forza generante sarebbe la più masochistica delle riflessioni. Come un eterno ciclo che non si sa dove inizi ma è capace di risucchiare chiunque nella sua vorticosa psichedelia.
I tormentoni ristagnano facilmente nelle menti fragili, come per esempio quelle dei più giovani che vogliono alzare la mano e partecipare al grande dibattito del mondo. Ritrovarsi con milioni di pareri copiati e incollati ne è l’amara conseguenza e amaramente la comprendiamo. Pur non essendo originale, la storia sottesa a Fortnite appare comunque avvincente. È fortemente ispirata al romanzo Battle Royale di Koushun Takami, poi diventato film culto con la regia di Kinji Fukasaku e l’interpretazione di Takeshi Kitano. La modalità “ne resterà soltanto uno” appassiona il giocatore e offre una miriade di soluzioni, ma permane la fissità delle strutture diegetiche da videogame. Stimola la fantasia praticamente fino a ingessarla. Tra tutte le degenerazioni analizzate, questa è senza dubbio la più realistica. Gli altri pericoli suonano ancora come echi lontani.
E la storia recente ci insegna che le preoccupazioni più gravi tendono a fare la fine delle bolle di sapone: è scoppiata presto quella legata agli effetti negativi di PokemonGo, è svanita ancor prima la minaccia della Blue Whale. Noi che ne parliamo, ci siamo incantati a guardarle librarsi in volo. Coloro che avrebbero dovuto ascoltare si sono limitati prima a sbuffare stizziti per scacciarle via e poi, inconsapevoli di tutto, a soffiare ancora una volta nello sparabolle. Per crearne di nuove.
Le immagini: il logo di Fortnite e quello della modalità Battle Royale; la rappresentazione di un giovane mentre sviluppa il gaming disorder e tiene gli occhi incollati allo schermo; una bambina che si diverte con un antico gioco.
Orazio Francesco Lella
(LucidaMente, anno XIII, n. 155, novembre 2018)